La pedo-follia in America

La sera in cui fu prelevato dal suo letto per essere portato in prigione, John Stoll aveva  un atteggiamento al limite dell’altezzoso.  
“Non sei preoccupato?” gli chiese il suo avvocato.
“Certo che no” fu la risposta. “Non ho fatto quello di cui mi accusano. Non possono condannarmi per qualcosa che non ho fatto”.
Uscirà dal carcere vent’anni dopo.
È il primo caso di follia collettiva, scatenato negli anni 80 nel paese del femminismo: l’America, che subito prese le contromisure per evitare il ripetersi di queste follie distruttive.  Al caso è stato dedicato un film/documentario, The Witch Hunt.  Il testo che segue è tratto dal New York Times e tradotto e riprodotto da
http://www.ragionegiustizia.org/view.aspx?id=799

MAGGIE JONES
19 settembre 2004

Ci sono diversi modi di guardare alla casetta bianca che sorge sulla Center Street a Bakersfield, in California. Agli occhi di molti, è una casa qualsiasi di un quartiere popolare, con giardino, moquette marrone, televisore nel soggiorno. Ma per la procura distrettuale della Kern County, venti anni fa, quella casa era il luogo di crimini di immane depravazione: nel soggiorno con la moquette marrone e il televisore, dei ragazzi fra i 6 e gli 8 anni di età venivano fatti posare per foto pornografiche; sul letto ad acqua di una delle camere da letto, dei bambini erano sodomizzati da tre uomini adulti, mentre una donna faceva sesso con il proprio figlio.
Ma guardiamo ora la casa con gli occhi di Eddie Sampley. Eddie è uno dei bambini che vent’anni fa venivano abitualmente molestati in quella casa. O almeno questo è ciò che Eddie ha riferito agli inquirenti, ciò che ha affermato di fronte a un giudice e a una giuria popolare in un’aula di tribunale gremita di avvocati. La testimonianza di Eddie e di cinque altri bambini è stata la prova principale che ha consentito alla procura di ottenere la condanna di quattro persone. Fra queste, John Stoll, un carpentiere di 41 anni, ha ricevuto la condanna più severa: 40 anni di carcere con 17 capi di imputazione.

Ora [nel 2004 ndt], per la prima volta dopo vent’anni, Eddie è tornato nella piccola casa bianca. “È la prima volta”, mi racconta. Le sue accuse contro Stoll, un padre divorziato molto alla mano che insisteva perché i bambini del quartiere lo chiamassero John anziché sig. Stoll e che li lasciava scorazzare per la casa in costume da bagno, mangiare pop corn e guardare video nel soggiorno – erano false.

Nel gennaio 2004, Eddie e tre altri ex accusatori sono tornati nel tribunale in cui avevano presentato la loro testimonianza contro John Stoll, questa volta per dichiarare che l’uomo non li aveva mai molestati. Oggi sono tutti prossimi ai trent’anni, e lavorano come costruttori, meccanici o commercianti. Due di loro hanno dei figli, della stessa età che avevano loro all’epoca delle accuse. E anche se non si sono più visti dopo il processo, le loro vite hanno avuto un’evoluzione per molti versi simile. Tutti affermano di aver sempre saputo la verità: che John Stoll non li aveva mai toccati. Tutti affermano di aver parlato di atti sessuali in risposta alle pressioni degli inquirenti. Un quinto accusatore non sa bene cosa sia successo, ma non ha alcun ricordo di essere stato molestato. Durante l’udienza in tribunale, solo il figlio di John Stoll, Jed, ha continuato ad affermare di essere stato molestato dal padre, pur non riuscendo a ricordare i dettagli dell’abuso: “Mi ci sono voluti anni di terapia per uscire da questa storia” ha affermato di fronte alla corte.

Maggie Bruck, coautrice del libro Jeopardy in the Courtroom: A Scientific Analysis of Children’s Testimony’ e professore di psichiatria presso la Johns Hopkins University, spiega che non esistono studi psicologici pluriennali che seguono l’evoluzione dei ragazzi coinvolti in casi di presunti abusi sessuali collettivi, in parte a causa di problemi di riservatezza. Tuttavia, la Bruck ha studiato le consulenze di follow-up condotte su bambini coinvolti in casi analoghi al noto caso McMartin. Alcuni di questi bambini continuano a credere di essere stati abusati. Bruck sospetta che ciò accada perché le famiglie o i terapisti hanno rafforzato i racconti sugli abusi. “I bambini affermano di non ricordare i dettagli salienti e presumibilmente più terrificanti” spiega. “Ma sono sicuri che tutto ciò sia avvenuto”.

Ma altri bambini coinvolti – fra cui Eddie – hanno sempre saputo di non aver detto la verità e sono perseguitati dai rimorsi. Linda Starr ‑ direttore legale del Northern California Innocence Project della Santa Clara University School of Law e rappresentante legale di Stoll durante il processo del 2004 ‑ è un ex Pm specializzato in crimini sessuali. La Starr è stupita dall’impatto che eventi vecchi di oltre venti anni hanno avuto sulla vita dei bambini: “Prima di conoscerli, non capivo che questi bambini, pur non avendo subito alcun abuso sessuale, hanno vissuto un trauma comparabile a quello di bambini realmente abusati” afferma l’ex pubblico ministero.

Eddie, che oggi ha 28 anni e lavora per un fabbricante di segnaletica commerciale, è ossessionato dal suo ruolo nella vicenda. “Perché non sono stato in grado di resistere?” si chiede. “Con le sigarette, ho saputo non seguire l’esempio dei miei coetanei. Ma di fronte alle pressioni degli inquirenti, non ce l’ho fatta. Ancora cerco di ricordare il momento esatto in cui ho ceduto”. È anche ossessionato dal modo in cui gli inquirenti hanno distorto la sua verità. Per anni, ogni volta che la figlia adottiva di sei anni invitava degli amichetti a casa, Eddie si chiudeva in camera da letto evitando di giocare o anche solo di stare in compagnia dei figli di estranei. Per un anno ha persino evitato di fare il bagno alla propria figlia, che oggi ha tre anni. “Ho paura che qualcuno possa raccontare cose non vere”. Che un bambino o una ex compagna delusa possano distorcere la verità. Il solletico può diventare una molestia, un abbraccio dei toccamenti ambigui. Eddie sa per esperienza diretta che i bambini possono mentire.

Nel settembre 1983, quando John Stoll prese in affitto la casetta bianca con tre camere da letto in un quartiere di Bakersfield, Eddie Sampley era un bambino dolce ed educato con i capelli biondi e il viso coperto di lentiggini, che frequentava la seconda elementare. Figlio unico, era controllato a vista dalla madre che non gli consentiva di allontanarsi troppo da casa senza avvertirla e gli imponeva di farsi vedere ogni mezz’ora quando andava in giro per il quartiere. Tra i bambini della sua età, Eddie era quello con una bella bicicletta cromata che vinceva le gare di bici e giocava con lo skateboard sugli argini in cemento di una vicina diga.

Quell’inverno, Eddie fece amicizia con un bambino di nome Jed Stoll. I genitori del nuovo amichetto erano divorziati, e Jed passava un weekend su due con il padre, a poca distanza dalla casa di Eddie. Jed aveva una collezione di macchinine, pistole giocattolo e un padre che non imponeva troppe regole.
La casa era sempre affollata nei weekend in cui veniva Jed. Il padre spesso passava a prendere i figli di 6 e 8 anni della sua amica Margie Grafton, Donnie ed Allen, e li portava insieme a Jed al mare, o a casa sua dove potevano, insieme ad altri bambini del vicinato, andare a caccia di rane, scavare nei terreni dietro casa o giocare in piscina.

Un pomeriggio di giugno, il vice sceriffo Conny Ericsson e Velda Murillo, un’assistente sociale del Servizio di tutela dell’infanzia della contea, si presentarono a casa di Eddie per parlargli di un possibile giro di pedofilia nel vicinato. Lo sceriffo Ericsson si era appena unito all’unità per la repressione dei crimini sessuali e non aveva alcuna preparazione in materia di indagini su abusi sessuali. L’assistente sociale Murillo era la più esperta dei due e, secondo quanto riferito da molti bambini, conduceva i colloqui. Era una donna piccola, con lunghi capelli neri, e avrebbe potuto essere scambiata per un’insegnante. Secondo molte testimonianze, era molto presa dal suo lavoro.

Quel giorno, lo sceriffo e l’assistente sociale chiesero ai signori Sampley di parlare da soli con il bambino. Mentre la madre Karen cercava di origliare da un’altra stanza, gli investigatori facevano a Eddie delle domande su John Stoll. Gli dissero che altri bambini avevano riferito che il sig. Stoll aveva fatto cose sessuali a Eddie e che Eddie aveva visto il sig. Stoll fare delle cose brutte ad altri bambini. “Continuavo a ripetere che non era vero, che non era successo niente” ricorda Eddie. “Non capivo di cosa stessero parlando”. La Murillo ed Ericsson descrissero atti sessuali che misero in imbarazzo il bambino di otto anni, facendolo scoppiare a piangere. “Continuavo a negare, ma non serviva a niente” ricorda oggi. Dopo un tempo che sembrò “infinito”, l’agente e la Murillo gli dissero che sarebbero tornati a parlargli. Uscendo di casa, i due dissero alla madre che il bambino negava di aver subito delle molestie ma che loro sospettavano diversamente. “Ho chiesto che mi dessero delle informazioni, racconta la madre, e mi parlarono della possibilità che esistesse una rete di pedopornografia collegata alla East Coast, una setta satanica o di molestatori. Ancora non sapevano”.

Poche settimane dopo, Karen portò il figlio in città per essere nuovamente ascoltato. Questa volta era nell’ufficio di polizia, e Eddie ricorda di essere stato seduto su una sedia metallica, a un tavolo troppo alto per poter appoggiare i gomiti. Secondo il rapporto di polizia, l’agente Ericsson chiese a Eddie “come chiamava il proprio pene” (“Ho risposto ‘hot dog,’, racconta il ragazzo, perché mi sembrava la cosa meno imbarazzante”). L’agente gli chiese inoltre dettagli sulla prima volta in cui aveva visto “degli adulti fare giochi sessuali con i bambini”.

“Mi dissero che John Stoll era un uomo cattivo e che dovevo aiutarli a metterlo in prigione in modo che non potesse più fare del male ad altri bambini” racconta Eddie. “Mi dissero che tutto era ok, bastava che dicessi cosa era successo”. E a un certo punto – Eddie non si ricorda esattamente quando o perché – il bambino cambiò la sua versione dei fatti. Gli disse di sì, che Stoll gli aveva fatto delle cose molto brutte. E che Stoll aveva fatto cose anche peggiori ad altri bambini.
[…]
Nel novembre 1984, in un giorno di scuola, Eddie andò in tribunale per testimoniare contro Stoll. Erano passati cinque mesi dall’inizio delle indagini, ed Eddie era ora in terza elementare. Ricorda ancora il grosso stemma del tribunale sopra la testa del giudice e di aver provato un forte senso di imbarazzo. Ma non ricorda quello che disse. “Non si ricordano le bugie, spiega, solo la verità”.

Sul banco dei testimoni, Eddie affermò che Stoll gli aveva detto di “andare sul letto ad acqua” e di togliersi i vestiti. Stoll aveva toccato il suo “hot dog” e gli aveva chiesto di girarsi, ma Eddie non aveva voluto e quindi aveva lasciato la stanza. Testimoniò inoltre che un altro giorno passando davanti alla camera di Jed con la porta leggermente aperta aveva visto Stoll che cercava di introdurre il proprio pene in Allen. Un’altra volta, la porta era spalancata e aveva visto Stoll che cercava di fare la stessa cosa con Donnie.

Gli altri bambini presentarono testimonianze più stravaganti. Allen testimoniò che i bambini venivano messi in fila per fare sesso con Stoll sul suo letto ad acqua e che un’altra volta, Margie Grafton aveva fatto delle foto di adulti e bambini nudi, “che facevano cose sessuali”. E Donnie descrisse in dettaglio di essere stato sodomizzato da Stoll e di aver fatto sesso orale con Grant Self.
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Quando il processo finì nell’inverno del 1985 e i quattro imputati — Stoll, Self, Maggie Grafton e il suo compagno – furono condannati, il silenzio scese su molte delle famiglie dei ragazzi. “Non mi ricordo di nessun amico dei miei figli che sia venuto a dormire a casa nostra dopo quella volta” spiega semplicemente la madre di Eddie, Karen. “Avevamo la sensazione di non poter neanche parlare con i bambini per strada. Avevamo paura di quello che sarebbe successo dopo”. Eddie confessò ai genitori che Stoll non gli aveva mai fatto nulla, ma gli inquirenti dissero alla madre che il bambino era troppo imbarazzato per dire la verità. “Non sapevo cosa credere” racconta la donna.

A fine processo, i figli della Grafton andarono a vivere con il padre fuori Bakersfield. Jed andò dalla madre in Pennsylvania. Di lì a pochi anni, la famiglia di un altro bambino, Victor, cambiò casa. Il caso cominciò ad essere dimenticato.

Eppure in modo impercettibile alcuni dei ragazzi cercarono di tenere in vita la storia – e di cambiarla. […]

Un anno dopo, Eddie raccontò alla sua fidanzatina di quarta elementare di aver mentito riguardo a Stoll. In vacanza, qualche anno dopo ripeté la sua confessione a uno zio. “Non mi è stato di grande aiuto”, ricorda. “Mi disse: E adesso cosa intendi fare?”.

Eddie era l’unico accusatore rimasto ad abitare nel quartiere di Center Street. Quando passava in bicicletta, vedeva ancora la casa di Stoll e il soggiorno in cui aveva guardato i video. Altri elementi erano lì a ricordare il suo passato. Per esempio le gite scolastiche in cui gli alunni erano portati a visitare il tribunale. “Era come andare nello studio del dottore” ricorda. “Avevo una sensazione di paura, avrei voluto essere da un’altra parte”.

Ma Eddie non aveva bisogno di sollecitazioni esterne per tormentarsi. Pensava a Stoll in continuazione. Arrivato alle superiori, non ricordava più il suo aspetto, ma spesso pensava a quella che doveva essere la sua vita in prigione. Pensava di scrivergli una lettera, “ma poi dopo averci pensato per un po’, me ne dimenticavo e finivo per non farne nulla”. Continuava però a confessare il suo errore; ne parlò a ogni fidanzata e a tutti gli amici più stretti. In parte, rivelava una bugia dolorosa, in parte cercava di ottenere aiuto. “La gente mi diceva che avremmo dovuto fare qualcosa, ma nessuno veramente sapeva come aiutarmi”.

Le autorità che avevano il potere effettivo di fare qualcosa gli apparivano tutte sospette. Avrebbe potuto andare nell’ufficio del procuratore distrettuale, ma “erano proprio loro i responsabili di quello che mi era successo” spiega. Poteva rivolgersi agli assistenti sociali. Ma lì lavorava ancora Velda Murillo. Poteva andare dalla polizia. Ma lì lavorava Conny Ericsson. Perché allora non parlare con l’avvocato che aveva difeso Stoll? “Aveva perso il caso” spiega Sampley. “Come aveva potuto perdere un caso del genere?”
[…]
Una sera del 1999, Eddie Sampley entrò in un ristorante messicano dove incontrò il suo amico d’infanzia Victor Monge. Si erano persi di vista dopo il processo e ora, quindici anni dopo, avevano entrambi superato i vent’anni. Victor vendeva telefoni, Eddie aveva preso un diploma come informatico e installava reti Internet nelle scuole. Usciti dal ristorante per chiacchierare e fumare, Eddie portò il discorso sull’ufficio della procura. Li riteneva responsabili di quello che avevano fatto a Stoll. Quel processo era stato montato, disse. E poi raccontò a Victor che Stoll non lo aveva mai molestato. Victor disse la stessa cosa.

Fino ad allora l’ossessione più grave di Eddie era stata il suo senso di colpa. Ma ora che poteva parlarne con Victor “le cose cominciavano a prendere forma”. Si raccontarono l’un l’altro di aver negato qualsiasi abuso all’inizio. Ma che gli inquirenti continuavano a fare pressioni, e che alla fine avevano confermato. Si raccontarono come queste vicende avevano reso le loro famiglie isolate e più protettive. Al pari di Karen Sampley, anche la mamma di Victor non voleva bambini a casa sua. “Non ci abbracciavamo mai, né ci scambiavamo manifestazioni di affetto dopo quella storia” racconta Victor.

Quella sera era forse un momento di svolta, un momento in cui due ragazzi avrebbero potuto mettere un gettone in un telefono pubblico per chiamare… chiamare chi? Non lo sapevano. “Ne abbiamo parlato” racconta Sampley. “Ma non sapevamo cosa fare”.

Nel frattempo, Stoll aveva passato 15 anni in prigione . Aveva 56 anni. Suo figlio Jed aveva quasi vent’anni e aveva smesso di scrivergli otto anni prima. La madre di Stoll, che aveva sempre creduto nella sua innocenza, era morta mentre il figlio era in prigione. Di tanto in tanto, Stoll pensava a Eddie e agli altri ragazzi. “Non sono mai stato arrabbiato con loro” racconta. “Ero solo deluso.”

Le condanne della maggioranza degli altri imputati nel gruppo di molestatori della Kern County erano state riviste – comprese quelle di Margie Grafton e di Tim Palomo – e i giudici dei tribunali d’appello avevano emesso gravi reprimende sulle discutibili procedure della pubblica accusa. (Dopo aver scontato la sua condanna, Grant Self è stato trasferito in un ospedale per malati di mente, dove è ancora oggi perché la corte lo considera un “predatore sessuale violento”). Il caso di Stoll non aveva elementi per l’appello e richiese un importante investimento pro bono da parte di uno studio legale. Infine, nel 2002, Michael Snedeker riuscì a coinvolgere il Northern California Innocence Project nel caso, e due avvocati dell’NCIP, Jill Kent e Linda Starr, inviarono un investigatore privato a Salmon, nell’Idaho, per ritrovare il figlio di Margie, Donnie Grafton. “Quando saprai perché sono qui, potrai esserne felice o odiarmi”: con queste parole l’investigatore Sheila Klopper si presentò alla porta di Donnie. In un incontro durato sette ore, il giorno dopo, Donnie raccontò alla Klopper la sua storia […].

Un secondo investigatore privato aveva già ritrovato Chris Diuri, Victor Monge e Eddie Sampley. Quando arrivò a casa dei genitori di Sampley, Eddie era nel giardino, a poca distanza dalla casa di Stoll. Era come se fosse rimasto lì per anni ad aspettare.

Quando Eddie entrò nell’aula di tribunale per la prima udienza del nuovo processo nel gennaio 2004, riconobbe Stoll solo dalla divisa marrone da carcerato. Si aspettava una persona più grande e forte di quell’uomo che, dopo anni in carcere, aveva perso la maggior parte dei denti e che, a quasi 60 anni, stava diventando calvo e portava gli occhiali. Eddie prese delle ferie per poter partecipare alla maggior parte delle udienze. Ogni volta che entrava nell’aula cercava lo sguardo di Stoll. “Volevo che sapesse che ero lì”.

Con poche eccezioni, la maggior parte dei protagonisti del processo di due decenni prima ha partecipato alle dodici udienze del nuovo processo. L’investigatore Conny Ericsson, ora specializzato in stupefacenti a Redding, California, ha negato di aver registrato le testimonianze dei bambini, contrariamente a quanto testimoniato da Diuri, Victor e Eddie. Donnie Grafton ha fatto un viaggio di 17 ore dall’Idaho per ritrattare le proprie accuse. Il fratello Allen è arrivato in tribunale il giorno successivo. Un uomo intelligente e introspettivo, Allen è dei sei bambini quello che forse ha vissuto l’esperienza peggiore. Per la maggior parte della sua vita, ha creduto di essere stato molestato dalla madre, da Stoll e da altri adulti. Ha passato anni in terapia, e partecipato a un programma per adulti molestati nell’infanzia di dieci settimane. Ma quando ha appreso che il fratello e altri ritrattavano le loro testimonianze, ha cercato di recuperare nella propria memoria ricordi specifici di abuso – e ha scoperto che non ne aveva. Quando un Pubblico ministero, Lisa Green, ha suggerito che forse li aveva repressi, Allen ha espresso delle perplessità: “Ricordo della volta in cui qualcuno mi ha dato una bastonata sulla schiena” ha risposto. “Ricordo di quella volta in cui sono stato buttato fuori casa per giorni. E ho ricordi ragionevoli su alcuni tragici avvenimenti della mia vita.

Più tardi, Allen mi ha detto: “In un modo o nell’altro mi è stato mentito. Ma so che devo smetterla di sentirmi una vittima per ciò che è accaduto. C’è qualcosa che manca nella mia memoria. O forse no, e questo è lo scherzo. Forse continuo a cercare qualcosa che non c’è.”
Il 30 aprile 2004, il giudice John Kelly ha annullato la condanna di Stoll, riconoscendo che i bambini erano stati interrogati con modalità improprie, che hanno reso inattendibili le loro testimonianze. Nei giorni prima che Stoll venisse rilasciato, Eddie è andato a fargli visita in carcere. “Eddie voleva scusarsi” racconta Stoll, ma gli ho detto di smetterla immediatamente: “Non c’è niente di cui scusarsi. Non sentirti in colpa, devi essere arrabbiato con le persone responsabili di quello che ti è successo’.”
Stoll, che ora è ospite a San José di due dei suoi avvocati, in attesa di decidere come trascorrere il resto della sua vita, telefona regolarmente a Eddie e ad alcuni degli altri ragazzi. C’è qualcosa di paterno nella sua voce, quando parla di loro – come se fossero vittime quanto lui. “Mi sembra che, in un modo o nell’altro, siano tutti in difficoltà”, racconta.
Il fatto di avere aiutato Stoll ritrattando la testimonianza, non ha cancellato il passato per Eddie. Non ha cancellato i suoi sensi di colpa per avere detto quello che volevano gli inquirenti. Non ha messo a tacere le domande sul perché lo abbia fatto. E non ha messo fine al disagio che prova quando è con bambini che non conosce. “Non farò mai l’allenatore con dei ragazzi” spiega. Recentemente, era al parco giochi con la figlia quando un bambino sull’altalena gli ha chiesto di spingerlo. “Ho detto di no. Mi sarei sentito a disagio”.
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