A distanza di 10 anni è possibile ripercorrere una vicenda che ha devastato la vita di bambini innocenti ed adulti innocenti. Dal nulla parte una falsa accusa; abusologi alimentano la follia collettiva; solo quando è chiaro che i bambini oramai terrorizzati vedono ovunque inesistenti pedofili, le numerose persone innocenti arrestate vengono assolte.
La parola fine spetta a una ex maestra: «Che cosa resta di tutto ciò? Resta l’orrore puro: inguardabile, inservibile, inguaribile. L’orrore di un quartiere impazzito, del lattaio che ti chiude il conto, dei genitori che incrociandoti per la strada trattengono i figli, delle scritte sotto casa, delle assemblee organizzate dai fomentatori d’odio, degli sputi fisici e metaforici, del volto impassibile dei falsi periti che firmano qualsiasi ignominia pur di garantirsi la collaborazione con il tribunale, dei magistrati stritolati dall’ansia colpevolista ai quali non sembra importare nulla della verità; resta, soprattutto, l’orrore della totale impunità di chi ha agito in palese mala fede, lasciato libero di colpire nuovamente, come è infatti successo, in nome di un sistema marcio fino all’osso. E resta il rammarico di rivivere i racconti di mia madre, ebrea deportata in tempo di guerra: le stesse folle plaudenti, gli stessi manipolatori del pensiero, la stessa rabbia cieca contro un nemico costruito ad hoc, lo stesso sonno della ragione».
La narrazione è tratta dal libro “Presunto Colpevole (sulla pelle dei bambini)” del criminologo Luca Steffenoni, pag. 224, ed. ChiareLettere.
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Il 14 dicembre 2001 alla scuola materna «Abba» di Brescia una mamma nota nella figlia alcuni sintomi di disagio: poca voglia di andare a scuola, sonno disturbato, atteggiamenti aggressivi. Le viene indicato chi può aiutarla: una neuropsichiatra infantile che collabora con associazioni antiabuso. Alla professionista saranno sufficienti due sole sedute per credere di aver capito il problema: nella prima la bimba resta muta; nella seconda viene sottoposta a un gioco guidato che permetterà di ricostruire una presunta situazione di «erotizzazione-eccitazione», considerata prova tangibile di un abuso sessuale subito.
In pochi giorni la diagnosi, oltre che sul tavolo del magistrato è sulla bocca di tutti i componenti della scuola. Se c’è una bambina violentata ci deve essere come minimo un violentatore. Poco importa che la bimba non parli di atti sessuali, non indichi alcun adulto molestatore, non descriva fatti che abbiano connotazione morbosa, non citi nulla che riguardi la scuola.
Alcune maestre della scuola hanno già individuato l’orco di turno. Sarebbe un bidello con il quale ci sono stati numerosi screzi, che ha più volte chiesto al Comune di essere adibito ad altra mansione.
A colpi di assemblee e riunioni la scuola viene divisa in due: da una parte gli accusatori, certi che qualcuno deve pagare e non si possa andare per il sottile nell’esporlo alla pubblica gogna, e dall’altra i pochi che invitano alla calma in attesa che la magistratura faccia il proprio corso.
Nel breve volgere di qualche mese chi è contro viene bollato come amico dei pedofili, intesi come categoria dello spirito, visto che al momento, oltre ai pettegolezzi, non risultano né persone indagate né un reato, ma solo voci e maldicenze.
Parte la prima raccolta di firme per chiedere l’allontanamento del sospetto dalla scuola. Schierato con i genitori accusatori e spalleggiato dalle deduzioni della neupsichiatria abusologa, il comitato si impegna in una zelante attività «investigativa», finalizzata ad avallare l’ipotesi di abuso e a indirizzare i sospetti degli inquirenti verso il bidello.
I ripetuti interrogatori, impropri ed errati nel metodo, a cui le maestre sottopongono i loro alunni, e le attività didattiche rivolte alla raccolta di «prove» creeranno però la manipolazione dei bambini, ai quali la figura dell’uomo è rappresentata come colpevole di avere fatto loro del male. Sulla piccola e involontaria protagonista, viceversa, non verrà mai accettato un contraddittorio professionale teso ad indagare seriamente i sintomi di disagio: di fronte alle richieste di sottoporre la bimba a perizia si alzerà il muro del «bene supremo del minore», di cui si fanno interpreti madre e consulente.
Nel volgere di pochi mesi gli effetti di tanto attivismo non tardano a manifestarsi e gran parte dei genitori si convincono che anche i loro figli siano stati abusati.
Le voci, il pettegolezzo e le leggende iniziano a girare vorticosamente e sul piccolo asilo calano i primi avvocati e le prime associazioni di tutela dell’infanzia.
Il Comune, datore di lavoro dell’inquisito, pare voler risarcire in maniera cospicua le piccole vittime dei pedofili. Con il diffondersi delle notizie la sala d’aspetto dei periti, pronti a certificare lo status di bimbo molestato, si affolla di pazienti.
Parallelamente si allunga a dismisura la lista dei dipendenti scolastici indagati. Ormai è chiaro: gli inquirenti si trovano di fronte a una pericolosa e organizzata banda dedita ai più turpi traffici sessuali. Del resto, le narrazioni dei bambini, fedelmente riportate dalle audizioni effettuate dai tecnici del tribunale, sono chiare e contestualizzate. Nei verbali si delinea una convergenza di vedute almeno tra le sei principali vittime, i cui genitori, più degli altri, risultano convincenti e capaci di portare avanti le accuse.
Seguendo le deposizioni de relato, cioè riportate dai parenti o dagli esperti senza sentire direttamente i bimbi, e gli interrogatori (nei quali verranno conteggiate dalla difesa almeno cinquecento domande suggestive), il quadro inizia delinearsi e a rivelarsi grave e convincente agli occhi degli inquirenti. È una vera Spectre del terrore quella che si palesa davanti ai magistrati.
Il bidello infatti, con la complicità di altri due colleghi è il beneplacito della coordinatrice didattica, durante le ore scolastiche sarebbe riuscito a sottrarre le piccole vittime alle ignare maestre, poi avrebbe comunicato (non si sa come, perché le intercettazioni non danno esito positivo) a una banda (composta da non si sa chi, perché non verrà mai individuata) che era scattata l’ora X. Emissari della banda si sarebbero presentati davanti all’asilo e, mentre le maestre evidentemente distratte non notavano l’andirivieni, avrebbero caricato i bimbi su qualche mezzo (una macchina? Un pullman? un furgone? biciclette? monopattini? non si chiarirà mai) e li avrebbero portati in un appartamento individuato con precisione dai detective.
Lì i bambini trovano ad attenderli una decina di uomini mascherati (circostanza che ne impedirà purtroppo il riconoscimento) che li spoglieranno, li narcotizzeranno (particolare che, lapalissianamente, nega la possibilità di avere maggiori dettagli da parte dei bambini), li fotograferanno e li filmeranno nelle pose più oscene (probabilmente dimenticando di usare pellicola o schede digitali, perché il materiale pedopornografico non verrà mai trovato). A questo punto il più è fatto: ai criminali non resta che svegliare i bimbi, riportarli all’asilo, consegnarli alle maestre che non sospettano nulla circa il prolungarsi della pausa pipì, vendere il frutto del lavoro, probabilmente via internet (anche questo non si saprà mai, poiché il principale incriminato non possiede nemmeno un computer); correre a investire i lauti proventi su conti o strumenti finanziari che presumibilmente appartengono alla categoria azionaria, visto che si dissolveranno come neve al sole e non saranno mal scovati. Certo, mancano un po’ di dettagli e di coerenza logica, ma l’impianto accusatorio sembra sufficiente per rinviare a giudizio cinque persone: tre ausiliari, la coordinatrice didattica e un professionista estraneo alla scuola che verrà prosciolto già in udienza preliminare. D’altra parte la piazza vuole i colpevoli e li avrà. In città è già sbarcato il circo dei fomentatori di tensione, con tanto di capo claque, nani e ballerine al seguito. Anni dopo, quando tutto sarà finito, i parenti e gli amici del bidello incriminato emetteranno” un comunicato stampa che ben inquadra il clima:
Fra le difficoltà psicologiche e sociali che comporta un’accusa tanto grave, abbiamo dovuto difenderci, non tanto dalle persone che ci conoscono e vivono nella nostra comunità ma dalle istituzioni, dalle associazioni, da coloro che dietro il paravento dell’antipedofilia realizzavano murales anonimi e diffamatori che istigavano al linciaggio.
Ricordiamo con sdegno le richieste avanzate, in un convegno nella nostra scuola, dal grande «difensore dei bambini», presidente di XXX, chiedere a gran voce la posa di bandierine sulle località che ospitano persone accusate di pedofilia dimenticando che l’ultimo grado di giudizio rappresenta l’estrema valutazione sulla fondatezza delle prove.
Vergognose le parole di XXX nei nostri confronti quando nei suoi convegni, locali e non, chiedeva apertamente al pubblico presente: «perché i parenti dei pedofili difendono i loro simili». Lo stesso presidente di XXX realizzò un convegno sul caso bresciano alla Camera dei deputati citando per nome e cognome il bidello e accusandolo di nefandezze che la sentenza di oggi e la precedente Cassazione hanno riconosciuto come mai realizzate.
I genitori e i volontari, intanto, organizzano ronde caserecce davanti alle scuole materne per controllare uscite sospette del personale scolastico. La vicenda bresciana è però ben lontana dal suo epilogo. Alla pioggia seguirà la grandine, e solo all’ultimo scoppierà la preannunciata tempesta.
IL CONTAGIO
Con la chiusura dell’anno scolastico 2001-2002, quattro maestre che si erano attenute alle indicazioni fornite dalla direzione didattica, ovvero svolgere la normale attività e mantenere riserbo sulle indagini in corso, si trovano ormai in condizione di non poter più collaborare con le colleghe «colpevoliste». Dopo aver chiesto al Comune di essere ricollocate in un altro asilo, otterranno il trasferimento alla scuola materna «Sorelli» per l’inizio dell’anno 2002-2003. Ma in quel clima avvelenato il provvedimento è visto con sospetto: nel volgere di pochi mesi il contagio psicotico passa da scuola a scuola. Portatrici sane del virus sono proprio le maestre.
Il pettegolezzo inizia a girare vorticosamente: «Ma lo sa, signora, che quelle sono state mandate via perché sono della banda dei pedofili? Sì, erano in combutta con la direttrice, me l’ha detto mio cugino che conosce uno che è lo zio dell’usciere del tribunale» è il verosimile ritornello. Le matres dolorosae delle associazioni si ritrovano così impegnate su due fronti: portare a compimento le accuse interne alla materna «Abba» e fomentare quelle alla «Sorelli». Bastano pochi mesi perché i primi genitori, con tanto di certificazione dei soliti esperti, si presentino in procura: anche i loto pargoli manifestano chiari ed evidenti sintomi d’abuso.
Curiosamente i primi interrogatori degli stessi genitori ai bambini forniscono la perfetta fotocopia della pista annusata all’«Abba». Anche qui si è organizzato, infatti, il consueto tour fuori porta con bambini al seguito, filmini e foto porno, ritorno a scuola e riconsegna, come se niente fosse, ai genitori, che fino al momento della prima denuncia non avevano notato niente di strano.
Le vicende delle due scuole di Brescia iniziano a muoversi in parallelo e le inchieste che ne derivano si alimentano vicendevolmente. I magistrati ne sono certi: la banda di pedofili è la stessa. Uguali sono le modalità operative, uguali anche i metodi d’indagine basati sulle sole deduzioni dei consulenti. Alla fine dell’estate del 2002, il bilancio è di due maestre arrestate senza alcun riscontro oggettivo, vittime del teorema per il quale i bambini non mentono mai che si è esteso ai genitori e ai periti psicologi. Gli arresti nelle due scuole hanno come unico fine quello di consolidare la psicosi collettiva. Il principio di colpevolezza preventiva diventa, infatti, la conferma che i fatti sono realmente successi: qualsiasi posizione moderata diventa indifendibile.
Con l’arrivo dei primi freddi autunnali scoppia la tempesta. Mentre i volontari affiggono manifesti agli ingessi delle scuole al motto di «Fuori i pedofili dalle materne» mentre i politici locali sono impegnati nel ping-pong di accuse su chi non ha vigilato e gli abusologi moltiplicano, gli interventi pubblici, iniziano ad arrivare i primi fondi di sostegno alle famiglie colpite dal dramma. Il conto è piuttosto oneroso perché nel frattempo le denunce sono diventate ventidue, da sommarsi alle sei della materna «Abba».
COPRIFUOCO
Nel marasma generale la procura decide che, per placare gli animi, la via migliore sia l’arresto di tutto il personale della scuola, dalle maestre agli ausiliari. Ma non è ancora abbastanza. Mentre le casse del Comune iniziano a sanguinare arriva provvidenziale un’altra voce: pare che tre preti della zona facciano parte della banda di supporto esterno.
Chi sbaglia paga. Certo, non saranno risarcimenti miliardari come quelli delle diocesi americane, ma quella bresciana è pur sempre una Chiesa ricca: prontamente, i tre ignari sacerdoti vengono iscritti nel registro degli indagati e si aggiungono al plotone dei rinviati a giudizio.
Tutto finito e si possono avviare le indagini? Neanche per sogno. Con lo svuotamento della «Sorelli» è evidente che i bimbi, molestati e non, debbano essere accolti in qualche nuova struttura. Alla bisogna si presta la materna «Carboni». Mal gliene incolse. Dopo pochi mesi di frequentazione della nuova scuola, un gruppo di mamme, che hanno già conquistato i gradi e qualche medaglia nella battaglia della «Sorelli», ritirano di comune accordo i figli. Parallelamente, iniziano i primi atti di sabotaggio e di disinformazione mirata e ben pilotata.
Le nuove voci si fondano sui racconti resi dai bambini provenienti dalla materna incriminata. Questi sostengono che ci sono dei «cattivi» che entrano nella scuola per toccare e baciare gli alunni. Parlano anche di uscite in macchina, presente il personale, sempre in compagnia di non meglio identificati «cattivi». Il contagio, ormai pandemico, si è sparso anche nella nuova scuola.
Dalle insinuazioni si passa alle azioni di autotutela. Ha così inizio il piantonamento esterno della «Carboni» da parte di genitori, parenti e volontari, e viene chiesta l’installazione di telecamere anche interne per un monitoraggio ambientale continuo via computer da parte dei genitori. La direzione respinge la richiesta, ma consente in ogni momento l’irrompere nella scuola di rappresentanti dei genitori per verificare la presenza dei bambini e il normale svolgimento dell’attività scolastica. Ogni ingresso e uscita dall’edificio è sottoposto a estenuanti pratiche di registrazione e notifica. L’attività didattica è depauperata, con le maestre ridotte da una parte a osservate speciali, dall’altra a secondine, ormai costrette a vivere in un clima da coprifuoco al quale è impossibile sottrarsi senza confermare indirettamente i sospetti.
Le accuse non sono più individuali, ma diventano assembleari. Così, in una riunione nella quale vengono invitati in qualità di esperti i genitori accusanti della «Sorelli» ma non sono presenti i sospettati, ovvero tutto il personale della «Carboni», si iniziano a formalizzare le denunce. Nella primavera del 2004 viene aperto un nuovo fascicolo in procura e parte l’indagine sulla materna comunale «Carboni» per sequestro di persona e presunti abusi sessuali sui minori.
Il vaso sta per traboccare. I primi dubbi serpeggiano tra la popolazione e fanno tardivo capolino dai quotidiani nazionali. Ingenuamente ci si domanda come possano i magistrati, che dopo due anni non hanno ancora trovato uno straccio di prova, proseguire con la carcerazione di così tante persone. Qualcuno si chiede se siano folli, in malafede, corrotti, o se sappiano qualche cosa che la gente comune non può conoscere, se il riserbo celi qualche segreto inconfessabile, se lo scandalo tocchi i piani alti del potere. Chissà, magari il sindaco, il vescovo, il papa.
Niente di tutto questo. In realtà il percorso processuale, sconosciuto ai più, ha una sua perfetta logica. Una volta stabilite le basi teoriche, il sistema antiabusi è semplicemente condannato a proseguire inarrestabile come la locomotiva gucciniana; se i sintomi equivalgono agli abusi, se gli interpreti di tali sintomi sono i genitori e i periti di parte, se ciò che afferma il minore è ininfluente quando scagiona ma diventa la bibbia quando accusa, se non è riconosciuta, nemmeno quando è palese, la suggestionabilità dei piccoli, se ci si rifiuta di ammettere 1’esistenza di mala fede, pregiudizio, contaminazione ideologica e psicotica negli adulti, se il bene supremo del fanciullo giustifica ogni azione, il processo non può fermarsi, pena la messa in discussione della propria esistenza e legittimità.
Di molte domande si fa interprete don Mario Neva, coraggioso e combattivo sacerdote che si espone pubblicamente, affermando non solo l’innocenza di tutte le persone indagate, ma anche la certezza che in queste materne non siano mai avvenuti i fatti denunciati. In breve tempo verranno raccolte centinaia di firme, che smuoveranno il torpore democratico con una sola richiesta: prove oggettive. Nel giugno del 2004, non meno di 400 cittadini, sostenitori del comitato «Liberi nella verità», sfilano in una fiaccolata silenziosa fin sotto le mura del carcere dove sono detenute due delle maestre inquisite, manifestando così la loro solidarietà.
La prima «inchiesta» a chiudersi è quella della materna «Abba». Inutile rimarcare come faccia acqua da tutte le parti: la sensazione esterna è che nemmeno la PM creda a quello che scrive, ma ormai, come detto, bisogna andare avanti con accanimento degno d’altre cause. Pesantissime le accuse per i cinque imputati: sequestro di persona e abuso sessuale finalizzato alla produzione di materiale pornografico.
ENTRA IN SCENA IL SATANISMO
Mentre si va verso un processo nel quale gli inquirenti perdono già i primi pezzi (la posizione del professionista esterno alla scuola non regge nemmeno l’udienza preliminare), chi si è tanto prodigato per istigare al tumulto intuisce che qualcosa non va per il verso giusto e tenta l’ultima disperata carta. C’è la banda dei pedofili, ci sono i preti incriminati, manca solo il satanismo. Il responsabile dell’associazione che più di ogni altra ha preso a carico la vicenda bresciana rilascia al settimanale «Panorama» le sue deduzioni, che coinvolgono anche don Neva. «Trovo assurdo che la Curia non si schieri dalla parte delle vittime. Abbiamo analizzato le perizie con l’aiuto d’investigatori stranieri. La conclusione è che tutto quello che è successo va inquadrato nella più ampia fattispecie degli abusi ritualistici di stampo satanico. Gli elementi ci sono tutti: escrementi, torture, croci, religiosi deviati. D’altronde la stessa perizia del tribunale parla di abusi ritualistici».
Un’opinione pubblica più che perplessa e le critiche che prendono corpo anche all’interno della magistratura, naturalmente quella più distante dal mondo chiuso e autoreferenziale delle «sezioni speciali», non possono impedire lo scoppio del quarto focolaio.
Il virus questa volta colpisce l’asilo «San Filippo Neri». Identici i racconti dei bambini, le denunce, le perizie, l’azione di disinformazione, le assemblee, i volantinaggi, l’intervento degli «esperti». Con un copione che ricalca fedelmente ciò che è avvenuto nelle altre materne, diventa ormai più facile, per i cronisti, stabilire quali siano i pochi complessi scolastici rimasti immuni rispetto a quelli nei quali all’atto dell’iscrizione si può scegliere la molestia preferita. La tragedia, che tale rimane per le persone coinvolte si è trasformata in farsa.
Di fronte alle ovvie deduzioni della difesa, i magistrati di primo grado del processo Abba tentano di salvare il salvabile dell’impianto accusatorio. Il 3 dicembre 2004 arriva a prima incredibile sentenza. Mentre si è dissolto il teoremi della banda dei pedofili e due dei quattro imputati rimasti vengono prosciolti dalle accuse, si condanna il bidello e una collega rispettivamente a quindici e a dieci anni di carere. Le associazioni antiabuso esultano. Anche se non c’è una prova, un movente, un atto preciso, è passato il principio che bambini, famiglie e periti di parte non possano mentire.
Mentre il Comune stacca assegni che vanno dagli 80mila ai 250mila euro per ogni famiglia, la parte civile, ovvero lo stesso Comune, che può chiedere a sua volta l’indennizzo agli imputati, sentendo puzza di bruciato rinuncia all’azione di rivalsa.
In un clima infuocato si chiudono anche le inchieste per la materna «Sorelli», ben più corpose per numero di persone coinvolte. Se da subito vengono archiviate le posizioni di alcuni imputati, tra le quali quelle dei tre sacerdoti, nel luglio del 2005 i giudici respingono l’accanimento del OM che chiedeva la proroga degli arresti per due maestre: dopo dieci mesi di carcere e dodici mesi di arresti domiciliari, sono finalmente libere. Questa volta però il collegio giudicante non si accontenta delle perizie di parte, sostenute dal solito gruppo di professionisti, ma vuole vederci chiaro. Contrapponendo il giudizio dell’accusa all’analisi dei fatti, la risposta poteva essere una sola: nessun abuso è stato commesso nella scuola. Le accuse sono unicamente frutto di una psicosi suggestiva che si è diffusa nella piccola comunità. Assoluzione generale. La stessa analisi, mancata fino a quel momento, porta all’archiviazione di tutte le denunce negli asili «Carboni» e «San Filippo Neri». Il circo degli abusologi professionisti inizia a smontare le tende e a defilarsi dal palcoscenico cittadino ed è un peccato, perché perde la possibilità di commentare la sentenza d’Appello del processo Abba, che lascia aperta qualche porta alla tesi pedofila. Se la bidella condannata in primo grado a dieci anni è assolta, i giudici bresciani affermano pervicacemente la colpa per il povero bidello, pur riducendo incomprensibilmente la pena a tredici anni di carcere.
Si tratta, in realtà, degli ultimi avanzi di un piatto mal cucinato.
L’ULTIMO ATTO
Nel settembre 2007, la Corte di cassazione, ricostruendo in maniera dettagliata e dando un giudizio estremamente severo sulla metodologia applicata nel processo, annulla la precedente condanna rinviando il procedimento ad altra sezione della Corte di appello di Brescia. Infine, nel giugno 2008, dopo otto anni di calvario, la seconda sezione della Corte di appello di Brescia, accogliendo le indicazioni della Corte di cassazione, assolve l’uomo «perché il fatto non sussiste», mettendo la parola fine alla vicenda.
La colonna infame si è sgretolata. Al Comune non resta che richiedere indietro i soldi generosamente offerti per violenze che non ci sono mai state, constatando che in gran parte sono già stati spesi. C’è chi ha finito di pagare il mutuo, chi ha comprato il camper, chi li ha girati agli psicologi che hanno curato gli abusi inesistenti.
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Si parla tanto di medioevo come di età oscura e retrograda: e questa cosa è? “Dagli all’untore” si gridava a Milano al tempo della peste per trovare un colpevole del disagio sociale, e qui non è la stessa cosa?
Qui si deve aver paura dei propri simili perchè il dono dell’intelligenza purtroppo non è stato dato a tutti, e siccome il disagio sociale esiste ed è sempre esistito, in qualunque momento puoi essere accusato di qualsiasi nefandezza.
Chi sbaglia deve pagare… e questo vale anche per i magistrati. Se una persona viene ingiustamente accusata di pedofilia o pedopornografia, rinchiusa in carcere, messa senza indugi alla gogna mediatica, sottoposta a ogni genere di violenza da una fin troppo ignorante comunità locale, chi può risarcirla di tutto questo?
Si tratta di un danno di proporzioni incalcolabili… che suscita ancora più indignazione se è stato provocato dalla leggerezza di qualche magistrato con scarsi scrupoli e in cerca di facile notorietà… magari con l’avallo di qualche giornalista desideroso di scoop e incline al sensazionalismo.
Sono convinto che la responsabilità civile (e penale) dei magistrati sia un principio sacrosanto. Mandare un innocente in galera è a mio avviso male peggiore che liberare i colpevoli dei più turpi delitti.
Chi grida subito al colpevole, chi individua a tutti i costi un capro espiatorio, chi si erge a giugice incondizionato e supremo della moralità altrui… beh, posso dirlo con fierezza, mi fa addirittura più pena degli stessi pedofili. Quelli veri.
Mancano ancora un paio di atti in questa rapida ricostruzione:
– le Corte di Cassazione annullò la seconda sentenza di assoluzione nei confronti del bidello, per carenza di motivazioni, rinviandola alla Corte di Appello di Milano per il rifacimento del secondo grado di giudizio.
– la Corte di Appello di Milano, al termine del rifacimento del terzo processo di appello, ovvero del secondo grado di giudizio, ha nuovamente assolto il bidello. Questo, giusto pochissime settimane fa.
Ora la Procura Generale di Milano potrebbe ricorrere “pro forma” per la terza volta in Cassazione, ma sarebbe francamente troppo…
Si vedrà nei prossimi mesi, in base ai tempi giuridici.
Comunque per l’odissea del bidello, ricorso o non ricorso, ora credo che si possa utilizzare la parola “fine”.
Un povero bidello, innocente, rimasto per 10 anni nella morsa della giustizia. Chi lo ripagherà di tutto ciò?