Il convegno “Affrontare la crisi della famiglia nel nome dei figli”

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Martedì 5 Febbraio 2013, nel corso del convegno “Affrontare la crisi della famiglia nel nome dei figli” che si terrà al Senato della Repubblica (Sala Bologna, Via di Santa Chiara, 5 – Roma), il dott. Vezzetti presenterà la ricerca su “lo stato dell’arte in tema di domiciliazione dei figli di coppie separate”.

L’abstract dell’intervento:

Malgrado la promulgazione, quasi sette anni orsono, della legge 54/06 sull’affido condiviso, è comune in Italia (come nella maggior parte dei Paesi europei) che quando una coppia si divide la prole venga di fatto collocata (se non affidata) presso uno solo dei genitori con marginalizzazione del ruolo dell’altro genitore. Tutto ciò comporta gravi ripercussioni (sia dal punto di vista biomedico che sociale) sui minori e, a cascata, sull’intera società.Lo scopo di questo convegno è di rivedere le migliori evidenze scientifiche internazionali sul tema e di focalizzare con l’ausilio di esperti riconosciuti le corrette modalità per introdurle in ambito legislativo e anche giurisprudenziale.Il convegno si basa sull’importante articolo AFFIDO CONDIVISO: L’INTERESSE DEL MINORE NELLE DIFFERENTI STRUTTURE FAMILIARI.Trattasi del primo articolo medico-scientifico italiano sul tema e, per la sua importanza, in brevissimo tempo esso è già stato tradotto in inglese, spagnolo, ceco e ucraino. In Argentina è già fondamento di una proposta di legge sulla bigenitorialità. Per evitare contestazioni basate su elementi di pregiudizio o di natura sociologica esso si basa sulle più importanti ed estese ricerche internazionali, senza connotazione geopolitica tipica, pubblicate sulle più autorevoli riviste scientifiche mondiali, provviste di validazione statistica dei risultati. Frutto di anni di ricerca, selezione e traduzione, questo articolo coinvolge globalmente oltre 200.000 minori in 4 continenti.

Il programma del convegno:

Ore 9,30 -9,40 > Dr. Massimo Rosselli del Turco
Presidente di “Aiutiamo le Famiglie A.Le F.” e portavoce parlamentare di Colibrì Apertura lavori, saluto delle Associazioni

Ore 9,40 – 9,50 > Dr.ssa Alessandra Gallone
Senatrice, Capogruppo Fratelli d’Italia-Centrodestra Nazionale Saluti del Senato

09.50 – 10,00 > Dr. Osvaldo Baldacci
Capo Ufficio Stampa del Presidente On. Rocco Buttiglione Saluti del Presidente Buttiglione

Ore 10,00 – 10,40 > Dr. Vittorio Vezzetti
Referente Scientifico di Colibrì, Presentazione del Documento “L’interesse del minore nelle differenti strutture familiari” Primo articolo medico-scientifico italiano

10,40 – 11,00 > Dr. Vincenzo Spadafora
Garante Nazionale dell’Infanzia e l’Adolescenza
I rapporti del Garante con le Associazioni per la tutela dei minori

11,00 – 11,20 > Dott. Giuseppe Di Mauro,
Presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale Prevenire il disagio attraverso la bigenitorialità

11,20 – 11,40 > Dr.ssa Edda Samory
(Presidente dell’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali L’assistente sociale nelle separazioni, nuove disposizioni e orientamenti dell’Ordine

11,40 – 12,00 > Dr. Massimo Rosselli del Turco Rappresentante Parlamentare di Colibrì Programma dei Lavori di Colibrì per il 2013

12,00 – 12,20 > Prof. Matteo Villanova
Docente di Neuropsichiatria infantile, Presidente OLTREEE Osservatorio Laboratorio Tutela Rispetto Emozionale Eta’ Evolutiva Luoghi della Mente e Tutela Emozionale in eta’ evolutiva

12,20 – 12,40 > Dr. Paolo Barcucci
Segretario dell’Ordine Nazionale degli Psicologi
Funzioni e ruolo degli psicologi in tema di domiciliazione e mediazione familiare

12,40 – 13,00 > Presentazione della Senatrice Gallone
del libro sui separati “Nel nome dei Figli” del Dott.Vittorio Vezzetti, invitata Senatrice Emanuela Baio, correlatrice l. 54/06.

Pausa Pranzo 13,15 – 14,00

14,00 – 14,20 > Dr. Francesco Morcavallo
Giudice al Tribunale dei Minorenni di Bologna
Due focolari: dalla famiglia-istituzione alla tutela degli affetti

14,20 – 14,40 > Avv. Carlo Ioppoli
Presidente dell’Associazione Avvocati Familiaristi Italiani Mediazione familiare e processo civile

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Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale

Il termine “mobbing” è stato utilizzato per la prima volta da Konrad Lorenz, nel descrivere gli attacchi di piccoli gruppi di animali contro uno più grande e isolato, per allontanarlo dal gruppo (o dal nido). Nel 1984 lo psicologo tedesco Heinz Leymann espose in un libro, insieme a Gustavsson, le ripercussioni di chi è costretto a subire un comportamento ostile e prolungato nel tempo da parte dei superiori e dei colleghi di lavoro.

Scopo del “mobbing” in ambiente lavorativo “è devitalizzare il “mobbizzato”, emarginarlo, fino alla resa inducendo il lavoratore alle dimissioni, a richiedere il prepensionamento per malattia professionale o creare le condizioni favorevoli al licenziamento, senza che si crei un “caso sindacale”.” (Ege, 1999)

I “mobber”, sostiene Ege, “agiscono con l’arma della parola e l’arma dello psicoterrore, dall’assegnazione di compiti dequalificanti o troppo elevati o pericolosi, in più, oltre alla violenza psicologica e verbale, usano armi subdole e imprevedibili come il sabotaggio.” (Ege, 1999). Leyman sostiene che “In this type of conflict, the victim is subjected to a systematic, stigmatizing process and encroachment of his or her civil rights” e che ” Psychological terror or mobbing in working life involves hostile and unethical communication which is directed in a systematic manner by one or more individuals, mainly toward one individual, who, due to mobbing, is pushed into a helpless and defenseless position and held there by means of continuing mobbing activities.”. (Leyman, 1999)

Leymann ha definito nel LIPT (Leymann Inventory of Psycological Terrorism) (Leymann, 1999) un elenco di quarantacinque comportamenti mobizzanti. Questi sono ripartiti in cinque punti, che elencano le costrizione subite dalla vittima: nella possibilità di comunicare adeguatamente sul posto di lavoro, in quella di mantenere adeguati contatti sociali sul lavoro, circa la reputazione personale, riguardo alla possibilità di lavoro (gli viene tolto il lavoro, gli vengono dati compiti insignificanti, ecc.); nella salute (gli vengono dati lavori pericolosi, viene attaccato fisicamente, molestato sessualmente).

Per quanto riguarda le patologie conseguenti al mobbing, Ege riferisce che “Nell’esperienza della Clinica del Lavoro di Milano, il disturbo dell’adattamento è largamente prevalente (oltre i 2/3 dei casi con caratteristiche di attendibilità), mentre il disturbo post-traumatico da stress (stessi sintomi del disturbo dell’adattamento, ma più gravi e con possibilità di sequele associato a intrusività del pensiero, comportamenti di evitamento di situazioni che possano – anche indirettamente – richiamare il problema lavorativo, e blocco dell’io) rappresenta un evento meno frequente. Circa un terzo della casistica totale è, infine, costituito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia”. (Ege, 1999). Il risarcimento del danno biologico ed esistenziale da mobbing accertato è attualmente prassi consolidata.

Recentemente, si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”. Una sentenza della Corte di Appello di Torino lo ha ritenuto, in motivazione, causa giustificante della addebitabilità comportamenti assimilabili al “mobbing”: i “comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; avuto riguardo “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali comportamenti sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”. (Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000).

Tale “mobbing familiare” (differente dal “Doppio Mobbing”, che indica le ripercussioni del mobbing sulle relazioni familiari del soggetto mobizzato) è, secondo alcuni autori divenuto tanto importante, che “si auspica che presto il mobbing familiare o coniugale venga considerato reato per legge e severamente sanzionato”.(“Rassegna dell’Ordine degli Avvocati di Napoli” Anno V – N.3 Luglio-Settembre 2001″). Altri ancora, hanno ipotizzato che in caso di comportamenti del genere il danno esistenziale così prodotto si candiderebbe “a categoria autonoma di danno autonomamente azionabile ex art. 2043 c.c.” (Petrilli, 2003).

Secondo alcuni autori, spesso “il Mobbing viene posto in essere da quei coniugi che artatamente ed in modo preordinato tendono, con atteggiamenti “persecutori”, a costringere i loro partner a lasciare la casa familiare o addirittura a giungere a separazioni consensuali pur di chiudere rapporti coniugali belligeranti e sofferti, dietro i quali spesso si celano rapporti extraconiugali o altro É Questo tipo di mobbing culturale applicato e ritrovabile con frequenza nei rapporti coniugali caratterizzati da una forte e lacerante conflittualità coniugale, trova radici anche in fenomenologie giuridiche recenti, che la Suprema Corte con altri termini ha giustamente sanzionato, come ad esempio: “L’incompatibilità ambientale”, il “Tradimento apparente” É o ancora “l’induzione preordinata alla separazione coniugale” (Ciccarello, 2002).

Ege nega l’esistenza del “mobbing familiare” (Ege, 1999), in quanto intende applicabile il termine al solo contesto lavorativo. Tale preclusione ci appare francamente paradossale e di scarsa sostenibilità: il concetto di “mobbing” deriva da un comportamento animale, e dunque o non lo si estende ad alcuna interazione umana o, se se ne accetta il “salto di specie”, ogni successiva limitazione è arbitraria, ed esso può applicarsi a qualunque contesto interattivo finalizzato all’estromissione di un individuo da un contesto cui questi legittimamente vuole o a ha bisogno di appartenere in qualche modo.

Un modello che risponde pienamente a tale descrizione è frequentemente individuabile nelle situazioni di separazione coniugale.

Due coniugi separati costituiscono il sottoinsieme genitoriale residuo alla disgregazione dell’insieme familiare. Sul piano della relazione, e del relativo “potere” decisionale, hanno ruoli apparentemente simmetrici. Tale formale lettura delle relazioni coniugali è però, al contrario, solo la chiave per spiegare come mai, sino ad ora, i modelli di ostilità cronica finalizzati all’estromissione di uno dei genitori da ogni sottoinsieme del residuo alla separazione, non siano stati “letti”, come “mobbing.

L’istituto dell’affido monogenitoriale attribuisce infatti al genitore affidatario l’esercizio della potestà genitoriale sui minori affidatigli, ma riserva ad “entrambi i coniugi” le decisioni di maggior interesse: art. 155, c.c. “Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi ; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.” Nei fatti questo si traduce spesso (e, nelle situazioni di elevata conflttualità sempre) nel far sì che qualsivoglia decisione circa i minori può così di fatto esser da lui adottata anche in assenza di ogni partecipazione dell’altro. Il quale, per far valere le proprie opinioni su un piano di parità decisionale, può solo adire il Giudice Tutelare, con tempi di attesa smisurati e, nei fatti, nessuna possibilità di intervento concreto.

Tale contesto permette, al genitore affidatario, l’esatta “traduzione” nel sottoinsieme genitoriale di comportamenti tipici del “mobbing” lavorativo. Tali comportamenti si esplicano in quattro differenti campi: sabotaggi delle frequentazioni con il figlio, emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori, minacce, campagna di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale.

I sabotaggi delle frequentazioni trovano radice nella facilità che il genitore affidatario ha di non incorrere in alcuna sanzione penale nel caso impedisca colposamente o dolosamente le frequentazioni statuite tra il figlio e l’altro genitore. Malgrado le espresse previsioni dell’art. 388 (Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice), nel quale rientra la fattospecie del genitore che non osserva il regime di frequentazione statuito dal Magistrato competente, la concreta punibilità di chi commette fatti del genere è estremamente frequente.

Nei casi di media o grave conflittualità il minore, soprattutto se di piccola età, più o meno frequentemente (a volte spesso o quasi sempre), non viene consegnato all’altro genitore con scuse banali, o semplicemente senza spiegazioni, oppure rifiutato per mezzo di scenate che comprendono accuse anche gravi. La presenza o l’arrivo di agenti di Polizia Giudiziaria non ostacola, salvo in casi rarissimi, quello che a tutti gli effetti è un comportamento criminoso. In altri casi, il genitore deve incontrare i figli in situazioni degradanti o umilianti: alla presenza di parenti dell’altro genitore, o di persone illecitamente incaricate di “sorvegliarlo”, ad esempio, o con modalità che lo spogliano di qualunque ruolo genitoriale – come quando deve eseguire i programmi extrascolastici (piscina, judo, musica, scacchi, ecc.) stabiliti dall’ex partner a sua insaputa, e fissati proprio nei suoi giorni di frequentazione: ciò lo trasforma nell’autista dei propri figli e lo priva di ogni ruolo genitoriale anche nel determinare il tempo passa con loro. Altre volte dovrà rinunciare alle vacanze estive o natalizie, essendo il o i minori “prenotati” per attività più gratificanti (classica la madre che prenota la settimana bianca o il club di lusso quando i figli dovrebbero partire con il padre per posti meno appetibili: nella nostra casistica c’è una madre che portò i figli in vacanza nella settimana in cui sapeva dover nascere il loro fratellino).

Si ricorda qui incidentalmente, che una delle ultime più tragiche Buy Generic Cialis stragi commesse da un padre separato, suicidatosi dopo aver ammazzato l’ex moglie e i figli, avvenne (luglio 2003) poco dopo che gli era stata notificato che, su richiesta ex novo della ex moglie, avrebbe dovuto svolgersi in Tribunale un’udienza, che andava a cadere proprio nel periodo da trascorrere con i figli nella sua terra d’origine. Secondo i familiari dell’uomo, un Ispettore di PS, l’ex moglie, avendo la possibilità di prevedere i tempi di fissazione dell’udienza, aveva fatto in modo che questa cadesse proprio nel periodo di frequentazione estiva del padre con i figli, per impedirgli di allontanarsi con i piccoli. La strage avvenne nel giorno in cui l’uomo sarebbe dovuto partire.

In altri casi, viene eseguita la classica “relocation”: il minore è trasferito con il genitore affidatario in una città lontana. I suoi incontri con l’altro genitore diventano difficili e impossibili, non vengono permesse modifiche al regime di frequentazione che rendano più facile, nella sopraggiunta situazione, i contatti con i figli, e per tentare di ottenerle occorre adire la Corte competente, con aggravio di tempi e costi. Le sottrazioni internazionali di minore rappresentano il tragico e macrosistemico estremo cui arriva questa forma di ostilità.

E’ vero che esistono strumenti giudiziali di controllo espressamente previsti per simili abusi, ma vale anche qui quanto detto prima: si tratta di strumenti di rara applicazione concreta, per via delle difficoltà del sistema giudiziario a intervenire in tempi brevi e su contesti quali quelli delle relazioni familiari.

L’emarginazione dai processi decisionali è anch’essa frequente: al genitore non affidatario viene impedito di partecipare a scelte fondamentali per la vita del figlio (istruzione, salute, viaggi, ecc.): ad es. sa solo a cose fatte a quale scuola, e di quale indirizzo, è stato iscritto il ragazzo; deve appurare personalmente quali sono i docenti, gli orari della scuola e del figlio e quanto da sapere circa i risultati scolastici del figlio. Spesso i bidelli e insegnanti ricevono ingiunzioni di non far avvicinare i figli l’altro genitore, e i contatti di questi con gli insegnanti sono preceduti da campagne di denigrazione. In caso di malattia non viene avvertito e apprende di esse e addirittura di ricoveri, solo a cose fatte, o allorchè gli viene impedito, illecitamente ma con tali motivazioni, di incontrare il figlio. In questi casi, l’esautorazione del genitore non affidatario viene spiegata con un suo difetto, che lederebbe l’equilibrio psichico e fisico del minore: o è un genitore “disattento”, o “morbosamente” attento alle sue condizioni di salute.

La campagna di denigrazione (ovviamente frequentemente reciproca), spesso accompagnata da minacce (“ti riduco sul lastrico!”, “ti faccio finire in galera”), prevede il ricorso a una vasta gamma di accuse presentate a tutto campo: al figlio, a tutta la rete amicale e familiare dell’ex coppia (o, anche, negli ambienti scolastici ed extrascolastici frequentati dal figlio), in sede giudiziaria (ormai tipiche le denunce: gravi, come quelle di abuso sessuale e/o maltrattamenti, tendenzialmente meno gravi le altre: violenza o danni nei confronti dell’altro genitore, sottrazione di minore per pochi minuti di ritardo, ecc.). Come noto le denunce di abuso comportano quasi automaticamente la sospensione delle frequentazioni genitore-figlio, che possono riprendere solo in ambiente c.d. “protetto”, che a prescindere da ogni professionalità con il quale vengono seguiti, com portano comunque una umiliante svalutazione della figura genitoriale.

La “punizione del marito” può essere ottenuta anche attraverso il coinvolgimento e la manipolazione di persone terze in azioni dolose (persone appartenenti al nucleo familiare, conoscenti, ma anche gli stessi professionisti – medici, psicologi, avvocati, ecc. – che si trovino ad avere rapporti con la madre). In questo caso, «è importante rilevare che la persona manipolata dalla madre è stata in qualche modo coinvolta nella rabbia della madre e «alienata» dal marito di questa in procinto di divorziare. (Rapporto Eurispes, 2002)

Vale comunque, anche qui, quanto si vale per tutte le altre forme di “mobbing” umano: “Il meccanismo della persecuzione è implacabile e può avvalersi di mille piccoli gesti quotidiani, che conducono irrimediabilmente verso l’isolamento.” (Ege, 1999).

Nei quadri estremi abbiamo due esiti: o quella che viene definita PAS, Sindrome di Alienazione Genitoriale, vale a dire la partecipazione del minore alla campagna di denigrazione contro il genitore non affidatario, con il rifiuto di ogni rapporto con questi; o l’esautorazione quasi spontanea del genitore non affidatario da ogni aspetto della vita del figlio, potendosi arrivare a comportamenti che sono l’analogo delle dimissioni forzate in ambiente lavorativo: il padre che rinuncia più o meno “spontaneamente” ad esercitare il proprio ruolo perché non può far fronte agli ostacoli che ne mobizzano il ruolo.

Il “terrore psicologico” citato da Leymann ed Ege e che costituisce il nucleo dell’esperienza mobizzante è sperimentato in una fin troppo ampia gamma di possibilità: si è terrorizzati dall’idea che, senza nemmeno preavviso alcuno, siano resi impossibili tutti i contatti (anche telefonici) o gli incontri con i propri figli, ivi incluso l’averne notizie; ogni squillo di telefono o di campanello rappresenta la paura di un nuovo fax, una nuova raccomandata, una telefonata dell’avvocato o una visita dei Carabinieri che annunciano nuove aggressioni, nuovi problemi, nuovi impedimenti. Il “doppio mobbing” arriva così a coinvolgere anche l’eventuale nuova famiglia (e, spesso, anche la nuova prole) del genitore non affidatario mobizzato.

Studi americani dimostrano che fra i genitori separati (in genere i padri, per logica statistica) è presente la stessa tipologia di psicopatologia dei lavoratori vittime di mobbing (Braver, et al., 1998) (Rowles, 2003). Nelle statistiche loro e di altri studiosi (vedi Rowles, 1998) vi è poi il rilievo che il padre economicamente inadempiente verso i figli è con grande frequenza un padre mobizzato dal suo ruolo. Secondo i dati della Associazione EX, che ha monitorato gli omicidi in famiglia, i padri separati sono notevolmente sovrarappresentati fra coloro che commettono delitti e stragi di familiari. All’opposto, sono assenti fatti di sangue per disgregazioni di coppie omosessuali sia maschili che femminili (Eurispes, 2002).

All’opposto di quanto ipotizza Ege, noi ci chiederemmo dunque come mai sino ad ora contesti mobizzanti di tal genere non sono mai stati descritti e riconosciuti, anche in sede giudiziaria, come tali, essendo evidenti come le modalità siano quelle della comunicazione non etica e ostile finalizzata all’espulsione di un individuo da un contesto cui legittimamente vuole o ha bisogno di appartenere, identicamente cioè a quanto avviene nel “mobbing” lavorativo. Riflessioni del genere ci porterebbero molto lontani: a ipotizzare collusioni sistemiche e macrosistemiche tra i mobbers genitoriali e tutto un contesto di regole e di ruoli, politici e professionali, delegati a gestire questi problemi a più livelli.

A nostro avviso è improcastinabile riconoscere che il mobbing genitoriale in conflittualità di separazione è un gravissimo problema sociale, in grado di provocare alti costi umani e sociali, e che occorre dotarsi di strumenti di prevenzione e tutela adeguati. Va riconosciuto come causa di un doppio danno biologico (per le conseguenze che provoca sui minori), deve essere presa in seria considerazione l’ipotesi di sanzionarlo come reato contro la persona, occorre modificare tutti quegli strumenti legislativi e giudiziari che ne legittimano l’espandersi ad ogni coppia incapace di gestire la propria conflittualità.

Gaetano Giordano

BIBLIOGRAFIA:

Braver, et al. Divorced Dads: Shattering the Myths, Edition Hardcover ,1998

Ege H., Il fenomeno, in Mobbing Online, in http://www.mobbingonline.it

Eurispes-Telefono Azzurro, 3° Rapporto sulla Condizione dell’Infanzia e dell’adolescenza, 2002

Leymann, H., 1999, The mobbingEncyclopaedia, in http://www.Leymann.se;

Petrilli D., Mobbing familiare e coniugale, LEX et JUS – luglio 2003, Napoli

Rowles G., The “Disenfranchised” Father Syndrome, Trad. it. di A.Vanni – S. Ciotola – G. Giordano, 2003, Psychomedia

Ciccarello M. E., Il Mobbing in Famiglia, Centro Studi Bruner, Master in Med. Familiare, 2002

[Fonte:  © PSYCHOMEDIA]

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Abusava di bambino in filmato pedo-pornografico: arrestata

È stata identificata ed arrestata la donna che appariva in un video intenta in atti sessuali con un bambino dai 4 ai 5 anni.

Le autorità avevano diffuso una foto della donna chiedendo aiuto ai cittadini ad trovare chi fosse. “Ore dopo la diffusione dell’appello, ci è arrivato un suggerimento che ha portato all’identificazione ed all’arresto.  Non c’è niente di più soddisfacente di sapere che grazie a questi sforzi un bambino è ora al sicura e la abusante è in galera”.

La donna arrestata è Corine Danielle Motley, 25 anni.

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2251793/Corine-Danielle-Motley-FBI-bust-Jane-Doe-child-sex-abuser-just-24-hours-nationwide-appeal.html

http://abcnews.go.com/Blotter/feds-bust-jane-doe-child-porn/story?id=18030002#.UOF2V7ZuRBB

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Fugge a dieci anni per vedere il papà: di notte a piedi nella galleria di Mughina

Voleva raggiungere il padre a Mamoiada, così è uscita silenziosamente da casa mentre la madre dormiva e si è incamminata da sola sulla tangenziale, determinata a farsi venti chilometri a piedi nonostante l’oscurità e il freddo pungente di una notte da lupi. Alcuni automobilisti l’hanno notata mentre, spaventata e infreddolita, vagava avvolta nel suo piumino all’interno della pericolosissima galleria di Mughina e, senza perdere tempo, hanno avvisato i carabinieri, che fortunatamente l’hanno raggiunta nel giro di pochi minuti e portata subito al sicuro. Protagonista della struggente fuga una bimba di dieci anni, che da quando i genitori si sono separati vive con la madre a Nuoro.

IL PIANO L’episodio, che poteva avere conseguenze tragiche, è accaduto nella notte di giovedì. Quasi certamente la piccola aveva studiato il suo piano da tempo, ma ha deciso di metterlo in pratica solo l’altro ieri, quando ha trovato il coraggio necessario. Dietro la fuga non ci sarebbe infatti alcun litigio con la madre, ma solo la disperata voglia di stare insieme all’amatissimo padre e vivere con lui. Un desiderio di cui probabilmente in pochi si erano accorti, di certo non i giudici che hanno deciso a chi tra i genitori affidarla.

LA FUGA Così giovedì la bimba ha deciso che era arrivato il momento di correre dal babbo: ha atteso che la madre andasse a dormire, poi si è alzata dal letto e si è rivestita, stando attenta a non fare il minimo rumore. Poi ha preso con sé pochi effetti personali, si è infilata il giubbotto imbottito di piume ed è uscita dal portone. La mamma non si è accorta di nulla e ha continuato a dormire tranquillamente.

Una volta in strada la bimba ha percorso alcune vie cittadine, passando da piazza Veneto e ridiscendendo la strada che costeggia l’Anfiteatro comunale. Pochi minuti ed è arrivata all’imbocco della tangenziale, con in testa la folle idea di percorrerla tutta per arrivare così sino alla statale 389 che porta a Mamoiada. Un percorso che la bimba conosce bene, visto che l’ha fatto tante volte in auto insieme al padre. E che aveva deciso di ripetere a piedi, pur di coronare il suo sogno.

L’ALLARME Attorno all’una e trenta alcuni automobilisti che transitavano nella galleria di Mughina l’hanno vista camminare a passo spedito rasente alla parete del tunnel. Non si sono fermati, forse per paura di provocare incidenti. Ma non hanno esitato un attimo a prendere il cellulare e comporre il 112. «C’è una bimba che sta camminando dentro la galleria della tangenziale – hanno detto alla sala operativa dell’Arma – intervenite subito perché rischia di essere investita». I militari non hanno perso un secondo e una pattuglia che si trovava in zona è stata subito spedita nel punto indicato dai testimoni.

I SOCCORSI Quando la gazzella è arrivata nella tangenziale la bimba era ormai uscita dalla galleria e stava proseguendo la sua marcia in direzione della 389. Con molta delicatezza i militari l’hanno soccorsa, facendola salire in auto. Lei ha detto solo una frase: «Voglio andare da babbo». Poi, una volta in caserma, ha rivelato il suo nome. Quando i carabinieri hanno bussato alla porta di casa sua, la madre dormiva ancora. Non si era accorta di nulla. Ora rischia una denuncia per omesso controllo di minore.

da http://www.unionesarda.it/Articoli/Articolo/158033

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Intervista al giudice Roberto Ianniello: il rapporto fra la Giustizia e i Minori

Riprendiamo una intervista, apparsa sulla rivista Psychomedia, al giudice dott. Roberto Ianniello, che è stato recentemente vittima di incredibili e vergognosi attacchi (pare che il giudice abbia osato tentare di proteggere un bambino da una madre assistita dall’avv. Andrea Coffari).

Padre di due figli e marito di una pediatra e psicoterapeuta il dott. Roberto Ianniello è giudice anziano del Tribunale dei Minorenni di Roma. E’ stato protagonista di una delle più significative esperienze di collaborazione fra Magistratura e Servizi Sociosanitari, la UORMEV (2) Attualmente fa parte del gruppo di ricerca sulla Mediazione Interistituzionale affidato dal Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma all’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza e presieduto dal prof. Novelletto. Inoltre il dott. Ianniello coordina uno dei gruppi distrettuali organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura finalizzati all’autoformazione dei giudici attraverso la discussione dei criteri e delle metodologie utilizzate nello svolgimento del proprio lavoro istituzionale.

In quella che da molti viene definita una società “senza padri” e di figli “sregolati” la figura del giudice del Tribunale dei Minorenni appare sempre più intensamente investita di aspettative e di timori, sia da parte dei ragazzi e delle loro famiglie che dai Servizi sociosanitari deputati alla prevenzione e alla riabilitazione del disagio adolescenziale. Il magistrato appare collocato su un crinale fra due serie di rappresentazioni: su un versante vi è quella di una “giustizia giusta”, a cui viene delegata la responsabilità di ripristinare l’ordine che è stato sovvertito nella società e, in particolare, di garantire la tutela del minore, il più fragile e bisognoso fra i diversi attori sociali.
Sull’altro versante vi è la rappresentazione di una “giustizia ingiusta”, lenta oppure troppo frettolosa e fallace. In quest’ultimo caso il giudice viene rappresentato come un padre assente e autoritario, che dispone provvedimenti ma non ne verifica l’attuazione, sottraendosi alla relazione con gli utenti e con i Servizi. Insomma, il giudice dei minori è un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano e questa intervista è finalizzata a conoscerne meglio ruoli, funzioni, orientamenti.

D. Partirò dal principio: quando e perché si è costituito in Italia il Tribunale dei Minori?

 

R. Il Tribunale dei Minorenni è nato nel 1934 principalmente come organo di controllo della gioventù, in un periodo in cui il Governo mirava al controllo totale della vita sociale dei cittadini. Esso avrebbe costituito un po’ un contrappeso al potere dell’Azione cattolica sui giovani e le famiglie, che il fascismo non riusciva ad intaccare. Negli anni ’30, ’40, Ô50 il giudice dei minori aveva una competenza molto estesa, particolarmente nei settori penale e amministrativo. Poteva intervenire sui minori “irregolari nella condotta”, come diceva la legge, per mandarli in case dove erano contenuti e “curati”. Si è lavorato molto sul piano giurisprudenziale per adeguare le norme alla realtà sociale e culturale in evoluzione. Quando verso la fine degli anni’60, sulla scia delle ricerche e delle scoperte americane, il concetto di abuso è giunto anche in Italia si è attivata la protezione dei minori dall’abuso, utilizzando le norme civili del codice degli anni ’40 attraverso un imponente lavoro interpretativo. Il giudice dei Minorenni è diventato sempre più il giudice dell’abuso e si è attrezzato per fronteggiare questo fenomeno sociale che si scopriva via via essere molto esteso.

D. In cosa consiste il lavoro di un giudice del Tribunale dei Minori in una metropoli come Roma?

 

R. Raffrontare il giudice dei minori alla metropoli mi sembra riduttivo. Il Tribunale di Roma opera su tutto il Lazio e ciò comporta occuparsi anche dei problemi di Comuni piccoli o piccolissimi: basti pensare che la sola provincia di Frosinone ha novantasei Comuni. Esistono tuttora molte problematiche legate al costume locale. Ad esempio, abbiamo potuto osservare fenomeni di incesto in province nelle quali permangono residui di una sorta di iniziazione rituale del pater familias rispetto alle figlie adolescenti, a volte anche preadolescenti. Come pure la resistenza culturale a istituti innovativi come l’affidamento familiare, per persone abituate a ritenere i figli altrettante cose proprie.

D. Quali sono le problematiche di cui vi occupate?


R.
Da un’opinione pubblica abituata alle schematizzazioni il Tribunale dei Minorenni viene considerato il Tribunale dell’adozione e del perdono giudiziale. In realtà il 90% della competenza civile del Tribunale dei Minorenni è nel campo dell’abuso all’infanzia.
E’ un lavoro impegnativo perché è molto difficile individuare questa patologia dei rapporti familiari che spesso, in una visione ristretta, viene ridotta ai maltrattamenti fisici o alle violenze sessuali ma che ha un contenuto ben più ampio. L’abuso, in Italia, si concretizza in larga maggioranza in ipotesi di abbandono. Nella nostra società il bambino subisce molteplici e ripetuti abbandoni che spesso sono ascrivibili ad una ridotta capacità dei genitori ad occuparsene, non solo a causa dei molteplici impegni contingenti ma anche per una sorta di carenza sotto il profilo della trasmissione culturale. Una volta le mamme insegnavano alle mamme. La mia generazione, che è la generazione del Ô68 e del ’77, ha rifiutato ogni forma di tradizione, ogni forma di insegnamento dei padri. Tuttavia la mancanza di radici ed il rifiuto dell’eredità culturale ad un certo punto emergono in termini di disorientamento. Alcuni genitori non hanno avuto una bussola per orientarsi ed hanno dovuto inventarsi le risposte ai bisogni dei figli, per rispondere in maniera non autoritaria, come si faceva prima, pur senza conoscere fino in fondo i comportamenti corretti. A volte si sono commessi degli abusi anche non sapendolo, credendo di fare bene, e gli abusi influiscono sullo sviluppo dell’affettività, dell’aggressività e delle relazioni con l’esterno del bambino, senza parlare degli aspetti cognitivi. Queste carenze nell’evoluzione ad un certo punto emergono e spesso ciò si verifica nell’adolescenza.

D. In certi casi l’adolescenza sarebbe una sorta di cartina tornasole dell’abuso, dunque?

R. Purtroppo si cerca di curare con i farmaci o con equivalenti dei farmaci, come se tutta l’adolescenza fosse in sé una patologia, e si perde in questo modo l’occasione unica di intervenire per aiutare il ragazzo a rimettere le cose a posto in un momento caratterizzato da una grande mobilità psicologica. Non c’è da meravigliarsi dello straordinario successo che ha avuto, prima negli Stati Uniti e ora anche da noi, quella sindrome del bambino iperattivo con la quale si è preso ad etichettare come malattia qualsiasi disturbo che il bambino presenta nella relazione.

D. Chi vi segnala le situazioni di abuso?

 

R. La segnalazione può avere varie origini: un genitore, i parenti, i vicini di casa, la scuola. Non è facile individuare i fattori di rischio evolutivo e quelli di protezione. Qualche anno fa a Monza l’équipe del prof. Bertolini, effettuò una ricerca sui fattori di rischio. I ricercatori si rendevano conto che le famiglie abusanti normalmente sono occulte e non hanno relazioni con le istituzioni: non mandano i figli al nido o all’asilo. Gli unici momenti in cui si potevano individuare le situazioni di rischio familiare erano quello della nascita (il passaggio dalla ginecologia e dall’ostetricia) e il momento della visita pediatrica. Avevano allora predisposto dei questionari per individuare possibili situazioni che poi venivano seguite con un follow up atto a vedere come si poteva contenere il rischio. Spesso la segnalazione individua un’emergenza e richiede risposte immediate ad un disagio già in corso, mentre la modifica preventiva di una situazione di rischio permetterebbe di lavorare soprattutto con le famiglie, in una specie di alleanza nell’interesse del minore.

D. I non addetti ai lavori sanno che le decisioni del Tribunale vengono prese nella Camera di consiglio, ma non ne conoscono l’effettivo funzionamento.


R.
La Camera di consiglio è composta da quattro persone: due sono giudici di carriera e
due sono giudici onorari: psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri, pedagogisti, insegnanti o avvocati, nominati a quella funzione proprio perché hanno una specializzazione rispetto alla trattazione dei problemi infantili. Uno dei due giudici è quello che conosce meglio il fascicolo, perché ha effettuato l’istruttoria.
L’altro è il presidente del collegio. Chi ha compiuto l’istruttoria riferisce quello che è successo, dalla segnalazione del caso a tutto quello che si è accertato in seguito (dichiarazioni delle persone, indagini del servizio sociale o della polizia) fornisce il suo parere in proposito e propone una soluzione. Questa soluzione viene discussa e a volte può non essere accolta. Può capitare a questo giudice di dover scrivere un provvedimento su cui egli non sia del tutto d’accordo ma che è stato votato dalla maggioranza del collegio. Questo è difficile da far comprendere ai Servizi territoriali ed alle persone che hanno collaborato con il Giudice nella raccolta dei dati, fornendo la propria opinione e le proprie proposte. Il Tribunale dei Minorenni sta cercando di riacquistare quanto più possibile un ruolo di imparzialità che nella foga della protezione dell’infanzia si era un po’ persa. I Servizi a volte pensano di poter concordare con il giudice una soluzione, ma questo non è possibile. Mi ricordo che nelle riunioni che c’erano all’epoca della UORMEV, in cui si discuteva dei casi, molte volte c’era da parte degli operatori l’accusa di non aver aderito alla proposta del servizio.

D. Il dottor Fadiga, l’ex presidente del tribunale dei Minorenni di Roma, segnalò che in numero sempre maggiore gli adolescenti si sottraggono al controllo della famiglia e della scuola e si orientano verso condotte antisociali senza i provvedimenti civili in materia di potestà genitoriale né i provvedimenti di ricovero in strutture protette riescano a fornire risposte di aiuto e di contenimento. E’ d’accordo?

 

R. Sono d’accordo. In istituto i problemi non si risolvono ma si aggravano, salvo rare eccezioni. Se l’adolescente rimane in famiglia, per quanto in una situazione conflittuale, ha qualche rapporto affettivo in più, l’ambiente è meno impersonale. Gli istituti dove si può effettuare una terapia si contano sulle dita delle mani. Di solito gli istituti sono privati e quando l’adolescente manifesta dei problemi (dà fastidio, ruba, picchia i compagni, è aggressivo) lo buttano fuori. Insomma ÔAlla prima che mi fai, fai fagotto e te ne vai!’, come diceva un personaggio del Corriere dei Piccoli. C’è bisogno di case famiglia e istituti qualificati e accreditati che non abbandonino l’adolescente a se stesso o lo facciano avviare ad una precoce psichiatrizzazione. Il problema degli adolescenti è un problema familiare ma anche un problema sociale. Spesso i Comuni possono offrire agli adolescenti solo le sale giochi, i video poker e forse una piazza come luogo di aggregazione. Se non hai la ragazza, il PC, non giochi nella squadra di calcio locale o non frequenti la parrocchia cosa fai, in un piccolo paese? Bisognerebbe effettuare investimenti mirati per dare agli adolescenti più alternative: ad esempio realizzare centri diurni di aggregazione, con attività più o meno specializzate.

D. Mi sembra che abbia toccato il problema particolarmente spinoso dei luoghi e delle modalità dove “trattare” adolescenti problematici.

 

R. Il giudice può individuare una diagnosi adeguata, e il trattamento adeguato, ma poi la terapia non si può realizzare perché l’adolescente di Pignataro Interamnia o di Broccostella non trova nelle istituzioni del suo paese i mezzi e la volontà per essere seguito. Trovare un luogo per curarlo costa troppo. Da tempo ritengo che i Comuni che non riescono da soli a realizzare i compiti istituzionali che la legge gli affida in materia di tutela delle persone dovrebbero trovare dei sistemi per unire le loro forze, in maniera da sostenere insieme il peso e le difficoltà di questa azione. Gli unici consorzi che i Comuni sono riusciti ad organizzare sono quelli per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che, assieme allo smaltimento dei rifiuti, sia necessario pensare a curare dei cittadini che, se non verranno aiutati e seguiti, potranno creare dei problemi futuri, non solo a se stessi e alle loro famiglie ma a tutta la società.

D. Quali sono i problemi di un’istituzione complessa come quella di un tribunale?

 

R. Sono i soliti, i condizionamenti dall’alto e dal basso. Dall’alto quelli legati a certe prassi burocratiche di origine ministeriale o anche dalla Corte d’appello: non so, compilare dei registri o non ricevere la copertura dei posti scoperti in organico. Dal basso il fatto di non disporre di personale qualificato. Il Tribunale dei Minorenni poi differisce dagli altri organismi giudiziari. Normalmente il giudice ha come interlocutori la polizia e i consulenti tecnici. I consulenti tecnici sono nominati dal giudice e in qualche modo dipendono dal giudice; il capo della polizia giudiziaria è il procuratore della repubblica, un magistrato. Il Giudice dei Minorenni, però, non agisce con la polizia né con i consulenti tecnici ma con specialisti di altre professioni che hanno un diverso ordinamento e diverse dipendenze gerarchiche, vengono pagati da altre istituzioni e sono totalmente liberi rispetto al giudice. Il giudice non può emettere ordini nei loro confronti. Essi devono svolgere il loro lavoro secondo i criteri della loro professione, che sono molto spesso diversi da quelli giuridici.

D. Si pone quindi un problema di integrazione fra queste diverse figure?


R.
Sì, a livelli diversi. Sia in termini di comprensione del linguaggio che di conflitti fra i dirigenti delle diverse istituzioni che possono fortemente condizionare il risultato di questa attività, che è un’attività complessa. Ormai l’hanno capito un po’ tutti che su un bambino, e soprattutto su un adolescente, si può sperare di ottenere un risultato se si lavora in équipe, con più persone che portino le proprie competenze scientifiche ma anche le capacità personali, sia tecniche che empatiche. Io mi batto da anni per la creazione di Servizi multidisciplinari, formati da più operatori che lavorano insieme. L’idea di risolvere i problemi con il singolo assistente sociale, magari relegato in un piccolo Comune sulla montagna, è pura utopia.

D. Eppure talvolta fra magistrati ed operatori dei servizi si registra una polemica: i primi contestano ai servizi sociosanitari del territorio di non fornire adeguati elementi per il giudizio e la decisione conseguente; i secondi denunciano la resistenza dei magistrati a voler realmente collaborare con altri professionisti e una tendenza a voler risolvere da soli i problemi. Qualcuno ha parlato addirittura di giudici in camice bianco e psicologi in toga nera. Qual’è la sua opinione in proposito?

 

R. E’ una polemica vecchia, credo abbastanza superata. Adesso l’accusa principale è quella di non voler concordare la decisione, mentre il giudice decide come terzo. Per cui ci sono richieste strane, ad esempio che la relazione del Servizio rimanga segreta. Ma come si fa a rendere segreto l’atto di un processo in un sistema in cui c’è la massima trasparenza a garanzia di tutti? Capita ancora, però, che certe indagini e certi accertamenti siano carenti e non diano gli elementi sufficienti per decidere, o che vengano effettuati dopo un tempo talmente lungo da rendere vana la protezione. Il giudice non attende passivamente questo tempo: ogni tre mesi al massimo sollecita una risposta; ma io ho avuto delle ASL che mi hanno risposto, nonostante solleciti stringenti, dopo oltre un anno. E allora l’alternativa è denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Ma serve realmente fare questo? Una denuncia non facilita una collaborazione. Quindi il rapporto è sempre molto delicato. In ogni lavoro, sia fra i giudici che fra gli operatori e gli specialisti dei servizi, ci sono persone brave e meno brave, persone che hanno voglia di lavorare e persone che non l’hanno. Il problema vero è quando un Servizio s’identifica con la figura di una sola persona: se questa persona è impreparata è un guaio per tutti.

D. Diversi esperti propongono di migliorare il faticoso processo di integrazione fra magistrati e operatori dei servizi introducendo una specifica formazione psicologica per i primi e una formazione giuridica per i secondi. Non le sembra che in questo modo si dia troppo spazio agli aspetti intellettuali e troppo poco allo scambio e alla comunicazione diretta di atteggiamenti, contenuti e modelli culturali caratteristici delle specifiche professioni?

 

R. Penso di sì. L’integrazione è molto difficile anche perché i ruoli sono diversi: i Servizi devono svolgere le loro competenze in materia di accertamento, di prognosi, di individuazione delle problematiche e di proposte di soluzione, mentre il giudice deve giudicare. Il compito del giudice è di effettuare la iuris dictio, cioè dire quale norma di legge si applica al caso concreto e qual’è il rimedio alla violazione che si è verificata. E’ indubbio che una formazione specifica possa essere utile nel senso di creare le basi per una formazione comune. Però mi spaventa pensare ad una formazione di tipo tayloristico, nella quale ci sia il Docente e i discepoli che devono abbeverarsi al suo sapere. Una formazione così ormai abbiamo scoperto non funziona, non serve a scambiare ed elaborare le esperienze, i diversi modi di pensare e di sentire, né ad evitare appiattimenti cognitivi.

D. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore i delitti commessi da alcuni adolescenti italiani, da Pietro Maso alle ragazze di Chiavenna e di Foggia fino a Omar ed Erika. Dal suo osservatorio a lei sembra che la violenza giovanile sia in aumento in Italia?

 

R. Direi di no. I dati statistici ci dicono che il livello di delinquenza giovanile in Italia è il più basso che esista in Europa e che questa situazione è rimasta stabile negli ultimi cinque anni. Certo è indubbio che oggi si assista a delitti particolarmente efferati e che ciò susciti particolare clamore, anche in relazione alla straordinaria cassa di risonanza dei mass media, motivati da esigenze spesso principalmente commerciali.

D. Cosa ne pensa delle proposte di legge di diminuire l’imputabilità piena da diciotto a quattordici anni e quella ridotta da quattordici a dodici?

 

R. Sono le proposte dei cosiddetti benpensanti, spaventati dalla risonanza di cui parlavo prima. Fino a quattordici anni si ha una piena irresponsabilità dei minori e al di sopra di quell’età, dai quattordici ai diciotto anni, vi è una piena imputabilità ma con una diminuzione della pena fino ad un terzo. Con il bilanciamento delle aggravanti, delle attenuanti e della diminuente della minore età si può sempre valutare la pena in maniera adeguata alla situazione, disponendo anche pene severe, se ne ricorrono i presupposti , dal momento che le previsioni normative lo consentono.

D. E’ vero che aumentano i reati commessi dagli infra-quattordicenni ?

 

R. Statisticamente non è dimostrato. In città come Roma il dato percentuale più elevato riguarda i reati commessi da persone non italiane, reati sempre degli stessi tipi: furti commessi dagli zingari e vendita di stupefacenti da parte dei nordafricani. Si cominciano a manifestare fenomeni di bullismo, che sono evidentemente dipendenti da un ambiente familiare e sociale inadeguato.

D. Un dato significativo è l’aumento dei reati collettivi. L’adolescente è spesso affiancato da un “complice”: un amico, il ragazzo/a, o, più frequentemente, agisce all’interno di un gruppo o di una “banda” legati da dinamiche specifiche. Mi pare che questo segnali lo stretto vincolo fra la mente del singolo e quella del gruppo e renda particolarmente complicato l’accertamento della responsabilità civile o penale che è sempre individuale. Come si muove il giudice in questi casi?

 

R. I reati di gruppo ci sono sempre stati. L’adolescente si unisce in bande quando ha bisogno di trovare conferme che non ha né nella famiglia né nell’ambiente sociale più esteso. Se i giovani fossero in società primitive probabilmente si sottoporrebbero a riti di iniziazione; in questa società a volte il comportamento antisociale può costituire l’equivalente di un rito iniziatico. Se l’adolescente avesse delle alternative nella famiglia o nel gruppo sociale non avrebbe bisogno di cercare conferme, considerazione, collocazione e anche affetto nella banda. Pensiamo alla paura che ha un adolescente quando commette un reato: paura di essere scoperto e di non essere adeguato, di perdere la faccia di fronte alla banda e al capo della banda, che può essere anche un adulto. Non ci dimentichiamo mai che imputabilità significa capacità di intendere e di volere, che vuol dire capacità di intendere il significato delle proprie azioni ma anche di volerle autonomamente. E’ opinabile che chi partecipa ad una banda abbia delle minori capacità di volere autonomamente l’atto compiuto perché in quel momento esso è in qualche modo emanazione di qualcun altro, di qualche cos’altro, forse emanazione di questo spirito impersonale ed anonimo della banda che proprio per questo anonimato permette una confusione fra ruoli, azioni e desideri. Mi viene sempre in mente quella definizione del popolo tedesco che lo rappresenta tanto sublime in ogni singolo individuo e così spregevole se preso tutto assieme. L’adolescente a volte è anche un po’ questo e bisogna tenerne conto.

D. Si dice che l’adolescenza possiede una sua specifica carica provocatrice e che rappresenta la fase della vita che più di ogni altra produce intensi processi identificatori fra il soggetto e i suoi oggetti. Sarebbe proprio questa caratteristica che attiva tanto l’interlocutore. E’ così anche per il giudice dei minori?

 

R. Sì. Alcuni giudici possono non trovarsi bene a svolgere questo lavoro perché può smuovere conflitti irrisolti del soggetto che indaga. Soprattutto nei rapporti con gli adolescenti, ma anche con i bambini e con le loro famiglie. Allo stesso modo ci sono aspettative riversate sul giudice per le quali egli può essere vissuto in senso miracolistico, come quel soggetto imparziale che risolve il conflitto che coniugi o conviventi non riescono a risolvere. Però il più delle volte prevale una difesa della propria riservatezza ed esiste una grande paura che qualcuno metta il naso nelle vicende familiari. Il giudice, dal punto di vista soggettivo, può essere vissuto come una figura da cui guardarsi perché è un po’ una schematizzazione del Super-Io. In effetti, fra le istituzioni, quella che giudica ha connotati fortemente superegoici. Così la relazione con il giudice può dipendere dal rapporto che ogni persona e ogni famiglia ha costruito con il Super- Io. Il mondo familiare è un mondo chiuso per definizione, in cui nessuno deve mettere bocca. I luoghi comuni su questa privatezza sono nei proverbi e nelle massime incise sulle mattonelle vendute nelle Fiere di paese. “I panni sporchi si lavano in famiglia” si dice, oppure “Dentro la mia casa io sono il re”, ed anche il detto poco ospitale sulla somiglianza fra ospiti e pesci finisce per inserirsi in questa difesa strenua di un ambito nel quale si può entrare se invitati (l’ospite), ma solo per breve periodo, e dove si è soggetti all’autorità assoluta del capofamiglia (il re). In tale ordine di idee è difficile accettare che ci sia un organismo statale della forza e del peso di un Tribunale che interviene ed interferisce con le decisioni e le vicende familiari. Anche nei giudici è talvolta presente il burn out che così gravemente colpisce i lavoratori delle helping professions tutte le volte che non riescono a superare l’inevitabile accumulo di frustrazioni conseguente alle difficoltà ed agli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro..
Il giudice che vuole svolgere bene il proprio lavoro ha bisogno di guardarsi dentro, acquisire quegli elementi che gli permettano di dialogare con le persone con cui viene a contatto e risolvere quei conflitti che possono inficiare il proprio giudizio, impedendo di vedere la realtà così come è.

Titolo originale:  Il rapporto fra la Giustizia e i Minori. Roberto Ianniello. Intervista di Emilio Masina, tratta da  http://www.psychomedia.it/aep/2002/numero-2/masina.htm

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Cassazione: la forte conflittualità fra i genitori esclude la possibilità dell’affidamento condiviso?

Due sentenze apparentemente di tenore opposto:

Cassazione: sì all’applicazione dell’affidamento condiviso in caso di conflittualità genitoriale

La Sentenza della Corte di Cassazione n.12976 del 24.07.2012, concerne la delicata materia dell’affido condiviso, nello specifico caso dichiara che la forte conflittualità fra i genitori non esclude la possibilità dell’affidamento condiviso, ponendo dei limiti ai presupposti per l’inapplicabilità dell’istituto.

E’, dunque, opportuno esaminare, brevemente, la disciplina previgente in materia di affidamento dei figli; in particolare l’articolo 155 del Codice Civile, prevedeva l’affidamento ad uno solo dei genitori, per cui il minore veniva  affidato a quello dei genitori con caratteristiche tali da poter favorire il pieno sviluppo della sua personalità, che pertanto, veniva dotato di potestà esclusiva riguardo l’educazione, l’istruzione e la cura dei figli. Al genitore non affidatario, rimaneva la potestà congiunta riguardo alla vigilanza sui livelli di istruzione ed apprendimento ed alle scelte più importanti della vita ed a quelle di straordinaria amministrazione. Nella normativa attuale il legislatore ha previsto l’affidamento condiviso dei figli minori introducendo la Legge n. 54 dell’8 Febbraio 2006; con tale atto il Parlamento ha conformato la legislazione italiana alla normativa vigente negli altri Paesi europei, ispirandosi sia ai principi sanciti dall’articolo 30 della nostra Costituzione, che stabilisce il dovere di entrambi i genitori di mantenere, istruire ed educare la prole, sia ai principi stabiliti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata in Italia con la legge n. 176 del 1991, che ribadisce “ il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”; nonché alla Carta Europea dei diritti del fanciullo del 1992, e alla Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei bambini del 1996. L’attuale istituto si fonda sul principio della bigenitorialitàsecondo cui i figli hanno il diritto a continuare ad avere  un rapporto integro e solido con entrambi i genitori, in caso di separazione personale dei coniugi, che sia equilibrato e continuativo, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi. La riforma, ha fatto proprio anche il principio della c.d. biparentalità, affinché la prole possa conservare rapporti con gli ascendenti e con i parenti di ciascun  genitore, elemento quest’ultimo, che viene definito di notevole importanza. Secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte che si esprime, compiutamente, nella Sentenza n. 16593 del 2008: “L’affidamento condiviso, comportante l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e patrimoniale del minore, si pone non più come nel precedente sistema, come evenienza residuale, bensì, come regola rispetto alla quale costituisce, ora, eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo”. L’art. 155 del codice civile, così come novellato dalla Legge 54, stabilisce che il Giudice valuti, prioritariamente, la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori e la potestà genitoriale debba essere esercitata congiuntamente, con l’intervento del Giudice, in caso di disaccordo fra genitori, ritenendo che, in caso di separazione personale dei genitori, il figlio minore abbia diritto a mantenere un rapporto stabile e continuativo con ciascun genitore, ricevendo da ognuno di loro cura, istruzione, educazione, conservando altresì rapporti significativi con i nonni e parenti di ogni genitore. E’ affidato al Giudice della separazione il compito di adottare i provvedimenti relativi ai figli, difendendo l’interesse morale e materiale dei minori; ed è allo stesso che spetterà la valutazione della possibilità  che i figli vengano affidati ad entrambi i genitori, oppure, ad uno dei due, opzione quella della monogenitorialità che diventa un’eccezione, nonché stabilire i tempi e le modalità della loro presenza con ciascuno dei genitori, fissando anche la misura e il modo in cui questi ultimi  dovranno soddisfare le esigenze materiali e prestare i mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico della prole. Pertanto, è prevista la pari dignità dei genitori, nella condivisione delle responsabilità per l’esercizio congiunto della potestà e dell’amministrazione, la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori che assumono, di comune accordo, le decisioni di maggiore interesse per la prole relative all’istruzione, educazione, salute, considerando le capacità e le inclinazioni dei figli. La Sentenza in nota pone alla base della sua motivazione i principi dettati dalla Sentenza n. 16593 del 19.6.2008, con cui la Suprema Corte di Cassazione, Sezione civile, ha stabilito che l’affidamento condiviso deve porsi, nel quadro della nuova disciplina, non più come mera evenienza, bensì come regola, rispetto alla quale costituisce eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo, cui si può ricorrere solo ove “l’applicazione dell’affidamento condiviso risulti pregiudizievole per l’interesse del minore”; la regola, dunque, è divenuta quella dell’affidamento condiviso. Precisa, ancora, la summenzionata Sentenza che il legislatore non ha ritenuto “tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del Giudice nel caso concreto da adottarsi con Provvedimento motivato, con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo”. Riguardo alla specifica fattispecie della mera conflittualità chiarisce e stabilisce che l’affido condiviso “non può ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi poiché avrebbe altrimenti un’ applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto”. Enunciando tali principi di diritto si pone l’accento sul senso dell’affidamento condiviso, comportante “l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione, appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti la sfera personale e patrimoniale del minore, ponendosi non più come evenienza residuale, bensì come regola, rispetto alla quale costituisce, invece, eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo”. Per tali ragioni l’art 155-bis prevede l’obbligo di motivare il Provvedimento che dispone l’affidamento ad uno solo dei genitori, la Suprema Corte, aggiunge che per stabilire quando ricorrano le condizioni per l’affidamento esclusivo, quale parametro logico giuridico, la decisione dovrà “risultare sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del figlio all’adozione, nel caso concreto del modello legale prioritario di affidamento” Cass. 16593/2008. Dopo aver formulato dette premesse spiega che “L’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi comunque precluso, di per sé, dalla mera conflittualità esistente fra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti un’applicazione, evidentemente, solo residuale, finendo, di fatto, con il coincidere con il vecchio affidamento congiunto. Occorre, viceversa, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o, comunque, tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore” Ed invero, la nuova Legge sull’affidamento dei minori, prevedendo l’affido ad entrambi i genitori, pone in rilievo l’interesse minorile, che deve essere considerato prevalente rispetto a quello degli adulti. L’opzione tra affido condiviso ed esclusivo dipende, quindi, dalla giudiziale verifica della rispondenza dell’uno o dell’altro all’interesse del minore, dominus in tal senso è la figura del Giudice cui è demandato l’onere di valutare se l’affido ad entrambi possa essere negativo per il minore, ossia contrario al suo interesse; ponendo, quindi, il minore al centro dell’attività istruttoria del giudicante, anche attraverso l’ascolto dello stesso, previsto dal nuovo art. 155 sexies codice civile.

 

Fonte: http://www.guidelegali.it/Approfondimento/la-forte-conflittualita-fra-i-genitori-non-esclude-la-possibilita-dell-affidamento-condiviso-corte-di-cassazione-n-12976-5289.aspx

 

Cassazione: no all’applicazione dell’affidamento condiviso in caso di conflittualità genitoriale

Con tale sentenza, la Suprema Corte, modificando il proprio precedente orientamento (cfr. Cassazione, sez. I° civile, 29.04.2008 n. 16593) (1), ha stabilito che per poter applicare l’istituto dell’affidamento condiviso dei figli è necessario «un accordo sugli obiettivi educativi, una buona alleanza genitoriale e un profondo rispetto dei rispettivi ruoli». In altri termini, se tra i genitori non vi è un profondo rispetto reciproco è bene che i giudici non incentivino tale istituto.

La pronuncia riguarda il caso di un padre separato che in primo grado aveva ottenuto l’affido condiviso della figlia minore, seppur con coabitazione di quest’ultima presso l’abitazione della madre. A seguito della decisione, la moglie aveva quindi proposto impugnazione innanzi alla Corte d’Appello, la quale, oltre ad aver addebitato la separazione al marito, aveva negato a quest’ultimo l’affido condiviso poiché pregiudizievole per il reale e concreto interesse della minore stessa; interesse su cui incontestabilmente doveva concentrarsi la principale attenzione. Il marito, invero appariva troppo “mammone” poiché non aveva mai tagliato il cordone ombelicale con la propria madre, in continuo litigio con l’ex nuora proprio per tale motivo: dagli atti, infatti, erano emerse rilevanti manifestazioni di disprezzo nei confronti della moglie da parte di tutti i membri della famiglia dell’uomo “che, per la disinvoltura con la quale erano state poste in essere e per la loro gravità, non consentivano di ritenere che si fosse trattato di esternazioni occasionali, estemporanee ed improvvise, e facevano invece ritenere verosimile che esse fossero frutto di un prolungato e graduale deterioramento dei rapporti favorito dalla contiguità abitativa tra le due famiglie“. In detto contesto – si legge nella decisione di secondo grado – doveva ritenersi che il marito “abdicando alla tutela della autonomia del proprio nucleo familiare e della dignità della propria moglie e mantenendo una condotta che confermava la valutazione compiuta dai consulenti d’ufficio circa l’esistenza di una sua dipendenza non ancora risolta con la madre, aveva violato l’obbligo, previsto dall’art. 143 cod.civ., di assistenza morale dovuta alla moglie“. Da tale comportamento, indice di immaturità, l’esclusione dell’affidamento al padre.

Chiamata ad esprimersi, sulla base di ricorso presentato dal padre, la Corte di Cassazione – in palese contrasto con quanto sempre espresso fino a quel momento – confermava la sentenza d’appello impugnata escludendo, parimenti, la possibilità di un affidamento condiviso ritenuto pregiudizievole per l’interesse della minore e per il suo sviluppo psicologico a cagione del particolare rapporto di uno dei due genitori (padre) con la propria famiglia di origine e del comportamento gravemente denigratorio tenuto da questi e dai propri familiari nei confronti dell’altro genitore (madre).

Posta, infatti, l’esistenza di simili condizioni, la minore sarebbe stata costretta a subire un adattamento a due realtà tra loro così diverse e nemiche (come quelle dei due genitori) tali da creare il presupposto per la strutturazione in essa di un «rapporto relazionale di tipo scisso».

Come è stato fatto precisamente notare dagli ermellini, il ricorso all’affidamento condiviso richiede la sussistenza non di simili presupposti bensì di un accordo sugli obiettivi educativi, di una buona alleanza genitoriale e di un profondo rispetto dei ruoli: elementi questi, nella fattispecie, totalmente assenti. Negando l’affidamento condiviso, come viene correttamente significato, non si è voluto negare alla figlia un diritto alla bigenitorialità, così come sancito nell’intervenuta riforma del 2006, si è soltanto voluto valutare con attenzione il contesto familiare rapportandolo, in concreto, al reale e primario interesse della minore, specie in funzione del suo corretto sviluppo psicologico ed affettivo. Al riguardo la Consulta non ha mancato di far notare come la Corte d’Appello, nel prendere in considerazione la spiccata conflittualità esistente tra i genitori provata altresì documentalmente (relazioni stilate dai consulenti d’ufficio, dal servizio pubblico di assistenza familiare e dalla pubblica autorità), “ha motivato il proprio convincimento suglieffetti pregiudizievoli che potrebbero derivare allo sviluppo psicologico della minore dall’affidamento condiviso, con riguardo ai comportamenti gravemente denigratori posti in essere dal padre e dalla di lui famiglia assunti nei confronti della madre…..Pertanto la sentenza non si è limitata ad un generico riferimento ad una mera conflittualità tra coniugi, ma ha esposto un percorso argomentativo conforme all’orientamento di questa Corte (…). Da qui la necessità di ridurre al minimo i rapporti tra i genitori…..“.

Invero, le argomentazioni svolte si pongono – per lo meno dal punto di vista dell’interesse tutelato (quello del minore) – sulla stessa linea di quanto sostanzialmente già statuito nella su richiamata sentenza Cassazione n. 16593/2008, in cui si afferma che “alla regola dell’affidamento condiviso può infatti derogarsi solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l’interesse del minore. Non avendo, per altro, il legislatore ritenuto di tipizzare le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione resta rimessa alla decisione del Giudice nel caso concreto da adottarsi con «provvedimento motivato», con riferimento alla peculiarità della fattispecie che giustifichi, in via di eccezione, l’affidamento esclusivo“.

Appare quindi evidente come, pur prevedendo la Suprema Corte la conflittualità genitoriale quale “nuovo limite” ai fini dell’applicabilità dell’affidamento condiviso, criterio di qualsiasi valutazione è rimasto sempre e comunque il prioritario interesse del minore che impone, in materia di affidamento, il perseguimento delle soluzioni più idonee a garantirne una corretta formazione della personalità ed un armonico sviluppo psico-fisico. Proprio per tale motivo, qualche anno fa, si è giunti all’approvazione della L. 8 febbraio 2006 n. 54 (2) che ha interamente riformato la materia dell’affidamento dei figli in sede di separazione introducendo l’istituto dell’affidamento condiviso quale regola generale in luogo dell’affidamento esclusivo (o monogenitoriale), divenuto ora alternativa residuale. Tale legge, tuttavia, come viene specificato nel relativo art. 4, comma 2, si applica non soltanto ai casi di separazione personale, ma altresì di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ed ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia.php?tt=cassazione-no-all-applicazione-dell-affidamento-condiviso-in-caso-di-conflittualita-genitoriale

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Bergamo, rissa e morsi per il figlio conteso

Il padre del piccolo, sette anni, assieme alla nuova compagna ha incrociato lungo la strada l’ex moglie. Quest’ultima ha preso a morsi la donna provocandole la subamputazione di un dito

Una maxirissa per strada tra i suoi genitori, i rispettivi nuovi compagni e pure il figlio maggiorenne di uno di loro. Ancora un bambino, dopo il caso di Padova, trascinato suo malgrado al centro di una triste vicenda, conteso tra mamma e papà e costretto a subire violenti strattonamenti. Il bilancio questa volta è di cinque denunciati e di una donna finita in ospedale, la nuova compagna di papà, alla quale l’ex moglie ha strappato a morsi la falange di un dito. La maxi rissa  è scoppiata pomeriggio a Bergamo, in via Silva, strada del periferico quartiere di Loreto. Sembra non ci siano molti dubbi, anche se le indagini sono ancora in corso, che al centro della violenta discussione c’è l’affidamento del figlio di sette anni della coppia.

Il bambino era in auto con la madre e il nuovo compagno quando la vettura ha incrociato quella di papà, che aveva a bordo la sua attuale compagna e il figlio (maggiorenne) di quest’ultima. I conducenti delle rispettive vetture si fermano. Papà e mamma scendono e cominciano a discutere. Il genitore pare da tempo rivendichi diritti sul figlio che considera non rispettati. Dagli insulti si passa alla lite, i due ex coniugi vengono alle mani. Volano spintoni, calci, pugni. L’attuale compagna dell’uomo scende dall’auto e cerca di dividerli. Ma l’ex moglie se la prende pure con lei e, in un eccesso d’ira, la morde alla mano, strappandole l’ultima falange di un dito della mano sinistra.

E’ a questo punto che si inseriscono nel litigio anche gli altri, compreso il figlio dell’attuale compagna del papà del bimbo, che divide le due donne. La scena non passa inosservata ai numerosi passanti e in diversi chiamano la polizia: sul posto arriva una Volante della questura. Gli agenti riportano la calma tra i cinque litiganti. La donna presa a morsi viene accompagnata in ospedale, dove i medici del pronto soccorso le diagnosticano la subamputazione della falange: suturata, è stata dimessa con dieci giorni di prognosi. Per tutti i coinvolti nella rissa scatta la denuncia a piede libero. Testimone in lacrime il bambino: resta ora da capire se saranno presi provvedimenti per il suo affidamento.

http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/10/22/news/bergamo_rissa_per_il_figlio_conteso_la_madre_del_bambino_ferita_a_morsi-45098932/

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Affido condiviso: la parola a medici, psicologi e ricercatori

Lo stato dell’arte in tema di domiciliazione dei figli di coppie separate

di Vittorio Vezzetti

Pediatra ASL Varese,
Responsabile scientifico dell’Associazione Nazionale Familiaristi Italiani.

INTRODUZIONE

Nel febbraio 2006, dopo un dibattito intenso e prolungato, veniva promulgata dal Parlamento italiano la legge 54/06 sull’affidamento condiviso. Da molte parti vista come un reale passo in avanti nella tutela dell’infanzia e un doveroso adempimento alla Convenzione Internazionale di New York in tema di diritto dei minori alla bigenitorialità, di fatto a sei anni di distanza essa si è rivelata insufficiente allo scopo al punto che in Parlamento sono state via via depositate sei differenti proposte di legge atte a modificare il nuovo dettato legislativo.

La senatrice Emanuela Baio (Commissione Infanzia), co relatrice della proposta di legge, così scrive nella prefazione del libro Nel nome dei Figli: “Per chi come me è stata correlatrice e ha creduto profondamente nella legge sull’affidamento condiviso, impegnandosi per farla approvare nel 2006, al termine della 14esima legislatura, è ancor più doloroso dover ammettere questo fallimento” (1).

Ancora oggi può capitare al genitore che chiede al Tribunale tempi e pernottamenti paritari all’altro genitore, di vedersi riconosciuti dai magistrati due soli pernottamenti al mese con la motivazione “l’affidamento condiviso non ha affatto per conseguenza la loro domiciliazione paritaria presso ciascuno dei genitori” (Tribunale di Firenze, sentenza n° 2433/11 ), oppure di leggere (documento CSM, dr.ssa Fiorella Buttiglione, marzo 2011): “Non mi pare poi che possa realizzare il miglior interesse del figlio la previsione della doppia domiciliazione quasi il figlio costituisca un monte premi di ore che i genitori debbano spartirsi equamente”. O ancora (sentenza n° 3053/2007 del Tribunale di Varese, marzo 2007, Giorgetti, Paganini, Leotta): “il tribunale per propria giurisprudenza costante non condivide una frammentazione del tempo che costringa di fatto a veri e propri minitraslochi ogni pochi giorni ritenendosi che ciò sia pericolosamente destabilizzante”.

La risultanza di questo approccio culturalmente monogenitoriale, della priorità data alla stabilità del domicilio rispetto a quella degli affetti, della inefficienza del sistema giudiziario nel fare rispettare i propri provvedimenti, è che 25.000 minori italiani (circa uno ogni tre) perdono secondo l’ISTAT i contatti con uno dei genitori dopo la separazione dei medesimi.

Le conseguenze sono notevoli sia in termini biomedici che sociali.
Nel primo settore sono note importanti influenze della deprivazione affettiva e dello stress emotivo in ambito neurologico e psicologico (Battaglia, Pesenti, Medland et al., 2009, dimostrano con uno studio che <i bambini geneticamente predisposti sottoposti a traumi da divisione dai genitori – lutti o separazioni coniugali difficili – in tenera età, hanno elevate probabilità di soffrire da adulti di crisi di panico per una azione modificatrice sui centri bulbari della respirazione>, mentre Anna Sarkadi et alt.: <mettono in evidenza come il coinvolgimento paterno – inteso come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità – abbia influenze positive sullo sviluppo della prole. Gli studiosi hanno analizzato retrospettivamente 24 studi longitudinali, svolti in 4 continenti diversi. La conclusione è che il coinvolgimento del padre migliora lo sviluppo cognitivo, riduce i problemi definiti di carattere “psicologico” nelle giovani donne, diminuisce la delinquenza giovanile e riduce la frequenza di problemi connotati come “comportamentali”>.), ormonale (nanismo psicosociale, alterazioni della secrezione di ossitocina e vasopressina), persino cromosomico (su Psychosomatic medicine uno studio scientifico dimostra che <Abuso o carenza affettiva, agendo sulla lunghezza dei telomeri e sulla produzione di sostanze proinfiammatorie, aumentano la sensibilità a fattori stressanti nella vita adulta con maggior rischio di disturbi psichiatrici>.). (2,3,4,5).

Nel secondo risultano chiare le influenze su gravidanze indesiderate, tabagismo e alcolismo, dispersione scolastica. (6,7,8)

Chi scrive è stato più volte presente in qualità di attore alle audizioni in Commissione Giustizia del Senato e ha potuto constatare come uno fra i principali motivi di attrito fra i vari partecipanti sia stato il dibattito su quale fra le diverse forme di struttura familiare possa essere considerato come golden standard per il raggiungimento dell’interesse del minore. In particolare, semplificando, si sono formati due partiti: quello della priorità da dare alla sede degli affetti, alla stabilità del domicilio, anche a scapito della relazione quantitativa col secondo genitore (costituito prevalentemente da avvocati e magistrati), e quello della priorità da attribuire invece alla continuità relazionale, alla stabilità degli affetti, a discapito della stabilità del domicilio (costituito prevalentemente da scientist).

Il seguente articolo, pur conscio dell’influenza di fattori di natura sociologica, vuole chiarire lo stato dell’arte nella letteratura scientifica internazionale sul controverso tema della struttura familiare da considerare come obiettivo da raggiungere nel vero interesse del minore.

ORIGINE DEL DIBATTITO

In linea di massima la ricerca ha evidenziato da tempo alcune problematiche nei figli di separati anche se questo non si traduce necessariamente e automaticamente in elementi di rilievo clinico. Fin dall’inizio del 1970, specie in ambito statunitense, si è aperto un intenso dibattito circa la positività o la nocività della custodia congiunta (fisica e/o legale). E’ di rilievo notare che, mentre negli USA (Paese in cui il divorzio esiste dal 1906), in Francia (Paese in cui il divorzio esiste dal 1789), in Svezia (dal 1913) iniziava questo dibattito, in Italia l’istituto del divorzio non era neppure legge dello Stato (la relativa legge fu licenziata dal Senato nell’ottobre del 1970) e questo può spiegare in parte un certo ritardo culturale nell’affrontare la tematica.
Le due posizioni pro e contro la pariteticità del ruolo genitoriale possono essere sintetizzate nel confronto “Benefìci dei rapporti continuativi con ambedue i genitori versus i possibili danni derivanti da una maggiore esposizione al conflitto genitoriale e da una instabilità del domicilio”.
La battaglia nella comunità scientifica è stata aspra, con posizioni fortemente contrarie all’affido congiunto e/o alternato (Goldstein, Freud & Solnit, 1973 e Kuehl 1989) e decisamente favorevoli (Roman e Haddad 1978 e Bender 1994). (9,10,11,12)
A distanza di oltre 40 anni dall’inizio del dibattito possiamo dire che è stato possibile sostituire delle impostazioni di natura teoretica e ideologica con approcci concreti basati sulle risultanze di importanti ricerche (specie a carattere metanalitico), legate a esperienze di Paesi che da tempo hanno iniziato, a differenza dell’Italia, a utilizzare l’affido alternato se non in maniera estensiva almeno in modo tale da consentire sufficientemente solide inferenze statistiche. Le conclusioni sono state abbastanza univoche e, seppur con molta lentezza, hanno iniziato a esser recepite da molte legislazioni.

LO STUDIO BAUSERMAN

Questo importante studio pubblicato nel 2002 da uno psichiatra del Dipartimento governativo degli Stati Uniti (Journal of Family Psychology 2002, vol. 16, N.1-91-102) inaugura la via metanalitica. Bauserman sostiene che una vera ricerca non deve esaminare solo le differenze tra i risultati dei due tipi di custodia ma anche come i fattori identificati possano essere correlati ad ogni singola differenza di situazione clinica. (13)

Bauserman chiarisce che con questa via non si può arrivare alla definizione di un ruolo causale assoluto ma solo alla correlazione, anche statisticamente validata, tra miglior tipo di custodia e variabile presa in esame.

Peraltro la via metanalitica è capace di integrare le risultanze della letteratura in un modo più sistematico e quantitativo convertendo risultati statistici in un sistema metrico e analizzando sistematicamente anche la magnitudo (quindi l’aspetto quantitativo) dell’effetto.
Questo approccio è per lo psichiatra americano il migliore per evitare alcune distorsioni sistematiche (bias) come, per esempio, la selezione delle fonti.

Bauserman si propone selettivamente due scopi: innanzitutto l’analisi metanalitica dei report che paragonano la situazione dei bimbi in custodia condivisa a quella dei bimbi in custodia monogenitoriale; poi si propone di esaminare come variabili secondarie possano influenzare i diversi risultati (per fare un esempio: poiché l’imprinting monogenitoriale della giurisprudenza internazionale è mediamente a favore della custodia esclusiva materna, un sistema che tenda a riequilibrare i ruoli genitoriali significherebbe che più maschi godrebbero del beneficio di più ampi rapporti col genitore di sesso omologo e quindi essi potrebbero in linea teorica avere maggiori benefìci dei figli di sesso femminile).

Bauserman analizza 33 studi (di cui 22 inediti) precedentemente selezionati in modo da essere standardizzabili: in 4 si confronta la custodia monogenitoriale con affidi alternati, in 21 si confronta la custodia monogenitoriale con affidi che prevedono tempi di coabitazione col secondo genitore tra il 25 e il 50% del tempo, cui si aggiungono 6 studi in cui la custodia monogenitoriale veniva confrontata con un affido congiunto basato su libera definizione della coppia genitoriale e altri 2 studi in cui separatamente si confrontavano, versus il medesimo campione di bambini affidati in modo monogenitoriale un gruppo di “alternati” e un gruppo di “custoditi in modo congiunto”.
Lo studio prevedeva il rilevamento di alcune misure di salute: quella psichica generale, quella comportamentale, quella emozionale, l’autostima, i rapporti coi familiari, l’assessment scolastico, l’analisi di questionai specifici di salute psichica fino al momento del divorzio più una schedatura del livello di conflitto sia passato che attuale e prevedeva la misurazione di 140 dimensioni d’effetto..
L’analisi riguardava 1846 figli in sole custody e 814 in joint custody e spaziava in un periodo compreso tra il 1982 e il 1999.
Venivano analizzati svariati fattori esterni passibili di influenzare gli esiti e si trovava che questi non erano modificati né dal sesso del primo autore dello studio, né dall’età dei figli al momento del divorzio, né dalla maggior prevalenza del genitore femminile nel gruppo “sole custody”, né dal tipo di misura (comunque il software dedicato DSTA eliminava i risultati estremi per dare omogeneità statistica.
In sintesi i risultati furono:
1- i bambini in custodia congiunta sia fisica che legale stanno meglio dei “sole custody” e in modo indipendente dalla loro età.
2- la presenza e la compartecipazione di padri non coabitanti era comunque associata a benefici comportamentali, emozionali, scolastici.
3- i risultati non variavano a seconda delle caratteristiche di chi compilava le schede (madri, padri, insegnanti, psicologi, medici).


Bauserman trovò poi che generalmente i bambini in joint custody erano figli di coppie meno conflittuali e non si nascose il problema di una possibile autoselezione della casistica ma osservò pure che il minor conflitto nei bimbi condivisi non prediceva il miglior assessment. Comunque anche altri studi (Gunnoe & Braver 2001) che facevano un controllo statistico della conflittualità depurando la ricerca da questa variabile continuavano a mostrare vantaggi per i figli. (14) Bauserman conclude affermando che per spazzare definitivamente ogni dubbio bisognerebbe eseguire studi confrontando figli in affido alternato per imposizione del tribunale con figli in alternato deciso autonomamente dai genitori separati.
Il confronto fra custodia monogenitoriale paterna e custodia condivisa mostrava vantaggi lievi e statisticamente non significativi a favore di quest’ultima (grosso problema per il ricercatore, emerso in molti altri studi, fu lo scarso campionamento derivato dall’approccio giurisprudenziale che tende a favorire la genitorialità materna).
Le conclusioni dello studio Bauserman (disponibile in versione integrale, come molti altri studi qui citati, sul sito www.figlipersempre.com) sono:

1- i risultati mostrano con certezza la correlazione ma non il rapporto causale tra joint custody e miglior status psichico
2- non è suffragata l’obiezione che la joint custody espone i bambini al rischio di avere due case di essere esposti a gravi conflitti, anzi la joint custody risulta benefica
3- la joint custody non va bene per genitori inetti (abusanti, trascuranti, malati psichici)
4- alcune fra le ricerche prese in esame affermano che la joint custody riduce i conflitti
5- è necessaria una diffusione di queste risultanze agli operatori del settore (NdA: anche i pediatri, rapportandosi a genitori di propri pazienti in procinto di separarsi dovrebbero informarli che il doppio domicilio inteso come continuità di riferimenti educativi e relazionali è positivo)
6- la conclusione ultima è che la joint custody può senz’altro essere benefica pur non evidenziandosi svantaggi specifici, ben definiti per la sole custody.

ALCUNE ESPERIENZE ESTERE

In numerosi Paesi l’affido condiviso è realtà da molto più tempo che da noi. Questo non significa che la maggioranza di sistemazioni di minori figli di separati segua la regola dell’affido alternato: la condivisione teorica della responsabilità genitoriale non corrisponde a quella pratica.

Abbiamo visto che Bauserman considera affido veramente condiviso quello in cui il minore non relaziona col genitore sfavorito per meno del 25% del tempo e questo cut off eliminerebbe dalla casistica la quasi totalità degli attuali affidamenti condivisi italiani!! Da noi, infatti, la media (teorica, perchè quella pratica è assai inferiore) è di circa il 17% (vedi “Il figlio di genitori separati”, RIPPS, 3-4 2009). (15)

Comunque l’affido condiviso, legge italiana dal 2006, era la regola in Svezia, Grecia e Spagna dal 1981, in Gran Bretagna dal 1991, in Francia dal 1993, in Germania dal 1998.
In California e Canada il giudice deve motivare il perché non concede l’affido condiviso con tempi paritetici.

Attualmente, in attesa che il Belgio promulghi una legge in discussione che prevedrebbe l’alternanza come regola, la Svezia è il Paese europeo con la maggiore percentuale di affidi in alternanza (30%, contro il 16,9% della Francia e, per fare un esempio, meno dell’1% dell’Italia). Generalmente, comunque, anche chi non ha l’alternanza può spesso usufruire di tempi sostanzialmente paritetici ottenuti modulando le ferie e i pernottamenti infrasettimanali presso il genitore sfavorito. Il risultato sulla conflittualità è stato straordinario: non essendo più il minore strumento di ricatto affettivo o economico nei confronti dell’ex partner e passando di fatto a un mantenimento di tipo diretto non mediato dall’assegno mensile, le cause giudiziali in Svezia si sono quasi estinte. Attualmente il 95,7% delle coppie consensualizza in prima udienza, altre in seconda e pochissime affrontano il percorso giudiziale (che, non essendo più oberati di lavoro gli uffici giudiziari, dura sei mesi soltanto).
Risultati molto buoni si sono ottenuti anche con la legge del 2006 in Belgio mentre qualcosa di incredibile è avvenuto in Australia: con l’introduzione della legge sulla genitorialità condivisa del 2006, a fronte di un incremento di cause generali da 76.807 a 79.442, in un biennio i ricorsi alla Family Court (grosso modo corrispondenti alle nostre cause giudiziali) si son ridotti da 27.313 a 18.633.
In Francia l’attuale legge contempla l’affido alternato ma è sufficiente una conflittualità, anche unidirezionale, per far cassare l’opzione dal giudice e ciò sta creando molto malcontento. In quel paese, comunque, la pratica dell’alternanza sia pure su scala ridotta non è mai stata un tabù come da noi e ha consentito di condurre alcuni studi di un certo rilievo quantitativo in larga misura favorevoli a questa modalità.
Tra questi (cfr. “Il figlio di genitori separati”, RIPPS 3-4 2009) lo studio del 1980 di Solint (per il quale questa modalità d’affido consente di incrementare la fiducia nei genitori; nel 20% i genitori volevano alternanza più rapida e nel 30% più lunga della canonica settimana), lo studio di Jacquin-

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Fabre (che dimostra ottimi risultati per genitori e prole) e soprattutto lo studio Raschetti del 2005 che rivisita una serie di esperienze del mondo francofono e di quello anglofono concludendo:
1- che l’affido alternato non turba i bambini, per loro natura dotati di grande capacità d’adattamento

2- e questo neppure se i rapporti tra i coniugi sono cattivi (pur non contribuendo a migliorarli)

3- che i tempi paritetici, laddove ci sia la possibilità logistica e la volontà di attuarli, non creano problemi neppure per i lattanti (dovendo solo regolare l’alternanza con l’allattamento)

4- che in generale è stato possibile evincere dai follow up che i bambini monogenitoriali hanno minor sviluppo cognitivo e sono meno socievoli. (16, 17, 18).

Uno studio importante su 3000 ragazzini francesi di scuola secondaria condotto da Poussin-Martin e ripreso dal Collegio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi italiani nelle audizioni presso la Commissione Giustizia del Senato attesta che sono i bambini che vivono con entrambi i genitori ad avere più alti livelli di autostima e a percepirsi i più sicuri di se stessi se paragonati con quelli che vivono con un solo genitore. (19)

Nell’importante audizione dell’8 novembre il Collegio Nazionale degli Psicologi argomenta: “… data quindi la totale inidoneità al fine della salute dei figli di un modello che preveda che un solo genitore (quello collocatario o prevalente) sia il permanente punto di riferimento dei figli, provvedendo a ogni loro necessità e assumendo ogni decisione e compito di cura, mentre l’altro si limita ad erogargli il denaro avendo con i figli solo sporadici contatti, in linea generale le modifiche del disegno di legge DDL 2454 non fanno altro che promuovere la possibilità che il principio della bi-genitorialità (nucleo allevante) non resti mero principio ma si inserisca nelle trame della vita quotidiana come applicazione rigorosa del principio stesso, tale da mantenere il processo evolutivo quale processo, appunto, e non fatto, cioè tale da mantenere sempre aperta la possibilità che su questo processo, incerto nel suo incedere, si possa inserire non solamente un genitore ma il nucleo allevante, cioè ciò che mantiene un assetto di terzietà.

Nel bilancio della salute del figlio certamente è quindi per lui meno di sacrificio perdere un po’ di tempo a frequentare due case che non perdere la possibilità di avere un riferimento in entrambi i genitori”.

LA SODDISFAZIONE DI VITA NEI BAMBINI

Uno studio straordinario è appena stato pubblicato su Children & Society. Esso è stato condotto da ricercatori delle Università di Bethesda, della Groenlandia, di Stoccolma, di Yvaskula (Finlandia), di Copenaghen, di Akureyri (Islanda), di Goteborg. Esso ha analizzato 184.496 minori (divisi in tre gruppi: undicenni, tredicenni, quindicenni) in 36 società occidentali (Italia inclusa) con non meno di 1536 studenti in ogni Paese per gruppo di età. (20)

Lo scopo del lavoro era di esaminare esclusivamente le differenze di soddisfazione di vita e di percezione del benessere familiare tra i bambini nelle diverse strutture familiari attraverso un ambito molto ampio di situazioni culturali. Un campione molto ampio tratto da 36 Paesi ha permesso di confrontare le comuni situazioni di vita comprendenti

famiglie non separate,
famiglie con madri single e
famiglie con madri e patrigni
con situazioni meno comuni come
famiglie con padri single,
famiglie con padri e matrigne e
famiglie basate sulla doppia abitazione nel collocamento congiunto.
L’analisi è stata basata sui dati degli studi del 2005/2006 del HBSC (Health Behaviour in School- aged Children), uno studio collaborativo inter-nazioni della Organizzazione Mondiale della Sanità. Il questionario standard internazionale consisteva di un numero di domande centrali usate in tutti i Paesi partecipanti e di domande focali addizionali che permetteva ad ogni Paese partecipante di enfatizzare particolari aree di interesse nazionale. Le misure del presente studio furono utilizzate in 36 Paesi occidentali industrializzati (Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Repubblica Ceca,

Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Olanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Regno Unito ,, e Stati Uniti) solo dopo aver ottenuto un’approvazione etica per ogni indagine nazionale in accordo alla legislazione di ogni Paese.

Le variabili dipendenti della soddisfazione di vita furono misurate con la misura classica di Cantril (1965), chiedendo agli intervistati di indicare dove essi sentono di stare in quel momento in una rappresentazione visiva di una scala nella quale 0 rappresenta la vita peggiore possibile e 10 la vita migliore possibile.

Per controllare l’influenza potenzialmente confusiva della ricchezza economica di livello individuale sulla soddisfazione di vita fu inclusa una misura dello stato economico percepito: la domanda chiedeva quanto bene lo studente pensava che stesse la propria famiglia (1: per niente bene; 5: molto bene) questa misura soggettiva era preferita ad altre misure oggettive di benessere come per esempio la HBSC scala per il benessere familiare poiché la soddisfazione di vita è più verosimilmente influenzata dalla percezione del benessere che dall’ammontare reale di beni materiali posseduti dalla famiglia rispetto ad altre famiglie.

Senza dilungarci troppo i risultati furono:

  1. 1-  I bambini che vivono con entrambi i genitori biologici riportano i più alti livelli di

    soddisfazione di vita rispetto ai bambini che vivono con un genitore single o con un genitore

    biologico ed uno acquisito.

  2. 2-  I bambini che vivono in sistemazione di collocamento materialmente congiunto

    (suddivisione paritaria dei tempi) riportano comunque un più alto livello di soddisfazione di vita rispetto ad ogni altra sistemazione di famiglia separata, solo un quarto di rango (-0,26) più basso dei bambini nelle famiglie integre.

  3. 3-  Controllandoinvecel’influenzadelparametrospecificodelbenesserefamiliarepercepito,la differenza tra famiglie con collocamento condiviso e famiglie di madri single oppure costituite da madre e patrigno diventa statisticamente non significativa.
  4. 4-  Le difficoltà di comunicazione con i genitori sono fortemente associate con minore soddisfazione di vita ma non influenzano la relazione tra struttura familiare e soddisfazione di vita.
  5. 5-  I bambini nei Paesi nordici caratterizzati da un forte sistema di welfare riportano livelli significativamente più alti di soddisfazione di vita in tutte le sistemazioni di vita rapportate a quelle degli altri Paesi, tranne che nella categoria dei figli che vivono casa del padre single. In particolare gli studiosi osservarono pure che il livello più basso di soddisfazione di vita era raggiunto dalle situazioni di padre single o di padre e matrigna. Sembrava dunque che il non vivere con la propria madre avesse un grande impatto nella soddisfazione di vita rispetto al non vivere con il proprio padre. Data la grande tendenza giurisprudenziale a far sì che i bambini debbano risiedere con la loro madre è anche possibile però che i pochi bambini in custodia del loro padre siano in media verosimilmente più portati ad esperire problemi sociali e psicologici importanti rispetto ai bambini in collocazione presso la loro madre.

    Ad un livello più pragmatico, inoltre, il bisogno di insiemi di dati molto ampi per fare solide inferenze su sottogruppi molto piccoli della popolazione ha gravemente ristretto le possibilità di ricerca con validazione statistica sui bambini che vivono con i padri single o con i padri e le matrigne. In ogni caso i risultati non suggerirono che vivere tutto o la maggior parte del tempo con la madre fosse cruciale a tale riguardo; i bambini che vivono approssimativamente metà del tempo con la loro madre e metà del tempo con il loro padre sono ugualmente soddisfatti come quelli che vivono con la loro madre o con la madre ed il patrigno la maggior parte del tempo. Mai è stata trovata una situazione di svantaggio per i figli in collocazione paritaria.

  6. 6-  Le differenze nel livello economico tra i diversi Paesi influenzano l’associazione tra determinate strutture familiari, il benessere familiare percepito e la soddisfazione di vita.

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CONCLUSIONI

L’ultimo studio di un qualche rilievo contrario all’affido condiviso risale al 1999: una piccola casistica in cui veniva valutata (negativamente ma senza raggiungere la significatività statistica) la sola variabile dell’attachment alle figure genitoriali. (21)
Che l’affido materialmente condiviso sia da preferire alla monogenitorialità è stato poi confermato in altro settore anche da uno studio svedese su 15.428 adolescenti incentrato esclusivamente sui rischi comportamentali: uso di droghe, alcool, fumo, esposizione a bullismo e violenza fisica, distress mentale (22). In particolare i migliori risultati si avevano sul distress mentale.

Alla domanda rituale “ma cosa ne pensano i figli dei separati?”, hanno poi risposto con una interessantissima ricerca Fabricius e Hall nel 2000. (23)
I due docenti di psicologia americani hanno chiesto ad oltre 800 giovani (matricole della loro università), cresciuti con genitori separati, di indicare le loro percezioni sul problema centrale dei bambini attualmente coinvolti nel divorzio: la ripartizione dei tempi di vita con ognuno dei genitori. La percezione dei ragazzi risultò chiara. Essi dichiararono di aver sempre desiderato trascorrere più tempo con i loro padri mentre crescevano e la collocazione ritenuta da essi migliore fu la ripartizione paritaria (essa fu scelta dal 93% dei minori che avevano usufruito dell’affido alternato e dal 70% di coloro che non avevano avuto la facoltà di sperimentarlo).

E’ evidente che l’affido alternato non può e non deve diventare un dogma indiscutibile per tutti i minori figli di coppie separate ma, rappresentando il golden standard, anziché venire escluso aprioristicamente come accade oggi in Italia, dovrebbe essere la prima opzione da considerare, da incentivare (ostacolando ad esempio il genitore che deporta in modo coatto i figli lontano dall’altra figura genitoriale) e da eliminare, come avviene in Canada, California, Svezia, solo di fronte a precisi e documentati motivi (con un ragionamento, quindi, in deroga da parte del magistrato: “e perchè in questo caso no?”).

Affido quindi le conclusioni di questo articolo al prof. Turchi, Docente di Psicologia applicata dell’Università di Padova di cui faccio mie le sagge parole che dimostrano come sia lunga ancora la strada per superare i muri del luogo comune, del pregiudizio, dell’ideologia e che chiude il suo intervento in Senato così:

-La principale critica che viene mossa a un modello pienamente e autenticamente
bigenitoriale, come quello che i disegni di legge in esame propongono, consiste
nell’inevitabile duplicazione dei centri di interesse della prole, con conseguente oscillazione
tra due riferimenti abitativi parimenti importanti. La terminologia adottata per esprimere il dissenso utilizza espressioni verbali fortemente negative, come “sballottamento”, “pacco postale”, bambino “tagliato a spicchi come un’arancia” (o il bambino “nomade” o quello “con la valigia” NdA).

E’ una critica che suona accattivante e apparentemente convincente, ma solo agli
occhi dell’uomo della strada, al richiamo del senso comune. Una critica che non tenga
conto degli studi scientifici del problema, del cammino che la conoscenza scientifica ha percorso. E’, ci si consenta, come negare gli antibiotici al malato di polmonite in nome degli indesiderati effetti gastro-intestinali che indubbiamente producono. Entrando, difatti, nel merito, non esiste alcun serio danno documentato, risultante da indagini longitudinali, conseguente alla frequentazione equilibrata di due abitazioni, ovvero della crescita ricevendo input seppure da modelli educativi non coerenti (anzi, tutto il contrario, come sopra si è detto). Se, invece, si sceglie di rimettere i principali compiti di educazione e cura ad un solo genitore sono innumerevoli gli studi scientificamente attendibili che attestano picchi di disagio minorile… omissis… Di notevole interesse il fatto che le positive osservazioni siano relative all’intero gruppo familiare, avendo potuto concludere che anche alle madri l’affidamento alternato reca vantaggi, riducendo i problemi di natura psicologica dei soggetti più giovani, legati ai sensi di colpa nei confronti dei figli, conseguenti alla separazione.

L’idea, pertanto, del doppio domicilio, lungi dal dover essere considerata di potenziale pregiudizio per il minore deve essere vista come un fondamentale strumento di tutela ai fini di un corretto ed equilibrato sviluppo.
Si può dunque concludere che nel bilancio complessivo nella salute del figlio certamente quindi per lui meno di sacrificio perdere un po’ di tempo a frequentare due case che non perdere la possibilità di avere un riferimento ad entrambi i genitori. Il che significa concludere a favore della soppressione della prassi della nomina di un “genitore collocatario”-.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

1) Nel nome dei Figli, www.nelnomedeifigli.it, Booksprint edizioni.

2) Battaglia M.,Pesenti Gritti P:,Medland S: et al., “A genetically informed study on the association between childhood separation anxiety, sensitivity to CO2, panic disorder and the effect of childhood parental loss”.Archives of general psychiatry, 06-01-2009.

3) Anna Sarkadi et al. “Fathers’ involvement and children’s developmental outcomes: a systematic review of longitudinal studies – Acta Paediatrica 2008, 97/2”

4) Opacka-Juffry et al.: “Experience of stress in childhood negatively correlates with plasma oxytocine concentration in adult men”. Stress-2012 jan, 15 (1), 1-10; Epub 2011 jun 19

5) Janice K. Kiecolt-Glaser et al: “Childhood adversity heightens the impact of later life care giving stress on telomere length and inflammation” Psychosomatic medicine 73: 16-22, 2011

6) Carol W. Metzler, et al. “The Social Context for Risky Sexual Behavior Among Adolescents,” Journal of Behavioral Medicine 17 (1994)

7) Terry E. Duncan, Susan C. Duncan and Hyman Hops, “The Effects of Family Cohesiveness and Peer Encouragement on the Development of Adolescent Alcohol Use: A Cohort-Sequential Approach to the Analysis of Longitudinal Data,” Journal of Studies on Alcohol 55 (1994).

8) U.S. Department of Health and Human Services, National Center for Health Statistics, Survey on Child Health, Washington, DC, 1993.

9) Goldstein et al: “Beyond the best interests of the child”. New York, Free Press, 1973. Kuehl (1989): “Against joint custody: a dissert to the general bull moose theory”. Roman et al.: “The case for joint custody”, Psychology today, p.96, 1978, September.

10) Kuehl (1989): “Against joint custody: a dissert to the general bull moose theory”. Roman et al.: “The case for joint custody”, Psychology today, p.96, 1978, September.

11) Roman et al.: “The case for joint custody”, Psychology today, p.96, 1978, September.

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12) Bender W.N. et al.: “Joint custody: the option of choice”, Journal of divorce & remarriage, 21 (3-4), 115-131. 1994.

13) R. Bauserman, “Child adjustment in joint-custody versus sole-custody arrangements: a meta analytic review”, Journal of Family Psychology 2002, vol. 16, N.1-91-102

14) Gunnoe M.L., Braver S.L. 2001: “The effect of joint legal custody on mothers, fathers and children, controlling for factors that predispose a sole maternal versus joint legal award”. Law and human behavior, 25; 25-43.

15) Vezzetti V.: “Il figlio di genitori separati”, rivista SIPPS, 3-4 2009.

16) Solint. L’enfant vulnérable, rètrospective. PUF Paris, 1980.

17) Jacquin-Fabre. Les parents, le divorce et l’enfant, EST Paris, di Guillaurme e Fugue.

18) Senato della Repubblica, documenti acquisiti nelle audizioni di ANFI per la discussione del DDL 957. Disponibili on line www.senato.it

19) Poussin G., Martin E.: “Conséquences de la séparation parentale chez l’enfant”, editore Eres,1999.

20) Life Satisfaction Among Children in Different Family Structures: A Comparative Study of 36 Western Societies Children & Society, Vol. 26, (2012) pp. 51–62

21)  J. Solomon e C. George (Development of attachment in separated and divorced families, in Psycology Selection, Attachment and Human Development, VoI. 1, No. 1. pp. 2-33, 1999)

22)  Beata Jablonska B.Sc Risk behaviours, victimisation and mental distress among adolescents in different family structure, Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology August 2007, Volume 42, Issue 8, pp 656-663

23) William V. Fabricius e Jeffrey Hall, : “Young adults’s perspectives on divorce”, Università dell’Arizona, USA, Family And Conciliation Courts Review, 38 (4): 446-461, 2000

Fonte: http://www.figlipersempre.com/res/site39917/res633928_affidamento-condiviso.pdf

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Per far soldi fa credere al figlio di essere malato di cancro. Condannata madre

Voleva guadagnare molti soldi e per farlo era disposta a tutto. Anche di rovinare la vita al figlio di 10 anni. È la triste vicenda accaduta a Gloucester, in Gran Bretagna, dove una madre 36enne, Emma La Garde, ha convinto il figlio di essere malato di tumore, mettendo in piedi una serie di bugie per ottenere dei benefici economici. Per rendere più credibile la malattia, gli ha rasato i capelli e le sopracciglia, costringendolo su una sedia a rotelle. Anche il marito ha creduto al male del piccolo, finchè non ha scoperto il terribile imbroglio una volta separatosi dalla donna. Emma ha trascinato suo figlio in un vero e proprio incubo quando il bambino aveva ancora 6 anni, costringendolo a vivere come un malato di cancro. Dopo aver avuto difficoltà economiche in famiglia, per la perdita del lavoro del padre, Emma escogita lo stratagemma per fare cassa. Il primogenito, il più grande di tre figli, ha un male incurabile. La donna, 37 anni, lo ha raccontato ai vicini, che si sono prodigati in assegni e solidarietà. Il bambino ha smesso di giocare con gli amici, sia a scuola che nel tempo libero, per le sue condizioni. Con i soldi raccolti la famiglia era anche stata in vacanza al Disney World in Florida, portandosi sempre dietro il bambino in sedia a rotelle.La finzione in cui era immerso il ragazzino è terminata nel 2010, quando il padre, dopo aver scoperto la farsa attraverso delle analisi del sangue che testimoniavano il buono stato di salute del bambino, ha denunciato la moglie. Il piccolo ha capito cosa gli fosse successo in questi anni soltanto dopo l’arresto della madre.“Lei è il diavolo. Non credo che abbia un cervello normale. Non riesco a capire che cosa è accaduto. Non mi manca. È stato orribile che la mia mamma mi abbia fatto credere che avevo il cancro”, ha commentato il bambino. La donna è stata condannata a tre anni di reclusione per truffa e abusi sul figlio.

http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/articoli/1069572/fa-credere-al-figlio-di-essere-malato-di-cancro-arrestata-madre-36enne-in-gran-bretagna.shtml

Come mai i bambini non vengono similmente protetti da quelle donne separate che per impadronirsi dei figli li plagiano fingendosi donne picchiate o anche usandoli per false accuse di pedofilia impiantando false memorie?

 

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La salute del minore e le novità introdotte con il vero affidamento condiviso – Prof. Gian Piero Turchi

Dipartimento di Psicologia Applicata, Università di Padova
Prof. Gian Piero Turchi
Docente di Psicologia Clinica della Salute
Direttore del Master II Livello “La mediazione come strumento operativo nell’ambito penale, familiare, comunitario, civile e commerciale”
Segretario Generale del World Mediation Forum

Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato

La salute del minore e le novità introdotte
Abbiamo considerato il progetto del DDL e le proposte in esame e valutiamo che in
relazione ad un obiettivo di promozione della salute dei figli di genitori separandi o
separati le principali novità risultano essere le seguenti:
– la frequentazione dei due genitori accuratamente bilanciata;
– il riferimento abitativo duplice;
– la modalità condivisa di contribuzione al mantenimento, che promuove da parte di
entrambi i genitori l’assunzione di compiti di cura.

Attribuiamo a questi aspetti il carattere di novità non tanto con riferimento alla normativa
attuale – che già li prevederebbe – quanto alla prassi, che è ha messo in evidenza aspetti
critici nell’applicazione rigorosa degli stessi.

Entrando nel merito, i ddl in esame si propongono di realizzare una piena aderenza
al principio del mantenimento della continuità di vita tra prima e dopo la separazione,
mediante la conservazione al figlio di una interazione piena e concreta con il nucleo
allevante integro che aveva prima della separazione – e la cui separazione, nell’ottica di
promuovere la salute dei minori, non può riguardare che la coppia coniugale.
Un principio di questo genere, se applicato con efficacia, comporta il riconoscimento
che i figli, affidati a due genitori che vivono in due contesti abitativi distinti e separati,
possano interagire equilibratamente e liberamente con entrambi. Ciò conduce,
coerentemente, alla introduzione di un doppio domicilio, doppio luogo di affetti e interessi,
ugualmente caro e uguale “proprio” per il figlio, sotto il profilo delle sue esigenze di
crescita. L’ulteriore e indispensabile integrazione di un siffatto modello non può non
prevedere una paritetica assunzione di responsabilità e compiti di cura da parte dei due
genitori.

Questo insieme di regole, o meglio di punti cardine, corrispondono alle linee guida e
agli obiettivi dei progetti considerati, in Italia non ancora sperimentati.

L’alternativa a questo modello coincide con la restaurazione giuridica del precedente
modello, quello che ha preceduto la riforma. Restaurazione solo giuridica, poiché
nell’applicazione alla vita quotidiana dei figli di genitori separati tale schema risulta essere comunque un riferimento nelle prassi.

L’individuazione e la nomina di un genitore “collocatario”, o “prevalente”, lo stabilirsi di una collocazione “privilegiata”, la previsione ordinaria e abituale di una forma di contribuzione mediante assegno che un genitore corrisponde all’altro affinché provveda a tutte le necessità di figli realizzano, infatti, il modello precedente.

Tutto ciò nel permanere dell’ “interesse della tutela della salute del minore e della
sua continuità biografica” quale criterio guida che, scelto dal legislatore, è anche dovere
del giudice perseguire.

E’ pertanto assai agevole individuare quale deve essere il compito della Psicologia, intesa
come scienza della salute della comunità: fornire al magistrato i necessari elementi per
definire un giudizio, ovvero quegli elementi che possano aiutarlo a comprendere quale
modello è più idoneo a favorire una condizione di salute dei figli.

E’ conclusione acquisita a livello scientifico che trovandosi il minore inserito in un
processo di crescita all’interno del quale la sua maturazione è favorita da uno scenario di
incertezza che lo obbliga costantemente a confrontare, valutare e scegliere tra modelli o
soluzioni diverse, è per lui salutare essere inserito in un contesto nel quale non gli
vengono date “istruzioni” a senso unico, come nell’affidamento esclusivo o nei modelli ad
esso omogenei, ma nel quale possa ricevere sollecitazioni e proposte educative
eterogenee, anche nella possibilità che queste possano essere differenti e opposte, ma
comunque con pari legittimità e affidabilità.

In altre parole, il sistema legale, se intende favorire la corretta e armoniosa crescita
e maturazione del minore è chiamato ad attribuire ad entrambi i genitori legittimità e
attendibilità di contribuire alla crescita del minore. Il passaggio, artificioso e innaturale,
operato dal sistema legale, da un paradigma di rapporto coordinato ed equilibrato tra i
genitori ad uno che introduce tra di essi una gerarchia e una subordinazione disturba il
quadro di incertezza, funzionale al corretto svolgersi del processo evolutivo.

Sarà, dunque, compito delle istituzioni operare una scelta a favore del pieno
riconoscimento delle potenzialità di educazione e cura che ciascun genitore possiede,
evitando, al contrario, di legittimare l’intervento di uno soltanto. Ciò, oltre tutto, andrebbe
anche a minare la funzione di reciproco supporto che i genitori svolgono, e favorisce la
possibilità di contrarre controversia o conflitto da parte di ciascun genitore, esponendo la
salute del minore ad ulteriori rischi.

Quando la gestione della vita quotidiana della famiglia separata risulta, infatti,
emanazione di un principio di nucleo allevante si genera la possibilità di mantenere aperto
un processo di terzietà nei confronti dei figli, per i quali l’uno e l’altro dei genitori restano
un riferimento costante e continuativo in grado di gestire gli aspetti critici che incontra il
processo evolutivo del minore; il processo di terzietà nei confronti dei figli viene reso
possibile laddove l’assetto familiare viene a fondarsi sulla possibilità che entrambi i genitori
siano riconosciuti prima di tutto sul piano istituzionale (la norma e la sua applicazione)
come nucleo allevante; questo processo di legittimazione istituzionale costituisce una
condizione necessaria affinché sul piano interattivo la famiglia (la madre, il padre, i figli) utilizzino nella gestione della vita quotidiana come primo riferimento la responsabilità
condivisa.

Obiezioni alla bigenitorialità e argomenti di replica
La principale critica che viene mossa a un modello pienamente e autenticamente
bigenitoriale, come quello che i disegni di legge in esame propongono, consiste
nell’inevitabile duplicazione dei centri di interesse della prole, con conseguente oscillazione
tra due riferimenti abitativi parimenti importanti. La terminologia adottata per esprimere il dissenso utilizza espressioni verbali fortemente negative, come “sballottamento”, “pacco
postale”, bambino “tagliato a spicchi come un’arancia”.

E’ una critica che suona accattivante e apparentemente convincente, ma solo agli
occhi dell’uomo della strada, al richiamo del senso comune. Una critica che non tenga
conto degli studi scientifici del problema, del cammino che la conoscenza scientifica ha
percorso. E’, ci si consenta, come negare gli antibiotici al malato di polmonite in nome
degli indesiderati effetti gastro-intestinali che indubbiamente producono.

Entrando, difatti nel merito, non esiste alcun serio danno documentato, risultante da indagini longitudinali, conseguente alla frequentazione equilibrata di due abitazioni, ovvero della crescita ricevendo input seppure da modelli educativi non coerenti (anzi, tutto il contrario, come sopra si è detto).

Se, invece, si sceglie di rimettere i principali compiti di educazione e cura ad un solo genitore sono innumerevoli gli studi scientificamente attendibili che attestano picchi di disagio minorile.

Che cosa accade, invece, quando la famiglia, nonostante se separata e nonostante
(leggi, proprio in quanto) caratterizzata da controversie al suo interno risulta vincolata ad
un principio di paritetica responsabilità nella educazione, cura e mantenimento dei figli?
Accade che il figlio e le questioni che lo riguardano risultano l’occasione dello scambio
continuo; accade, infatti, che il figlio non costituisca solo il “destinatario” dell’azione di
cura, di educazione e mantenimento del genitore, ma anche il “promotore” di condivisione,
divenendone quindi “agente” e “beneficiario” al contempo.

Questa condizione è foriera di processi di cambiamento su due versanti: da un lato sull’assetto del nucleo allevante, cioè in maniera costante accade che il singolo genitore sia vincolato a constatare la cura e le potenzialità educative dell’altro genitore, ovvero il figlio risulta quell’elemento di terzietà il cui processo evolutivo funge da testimonianza dell’azione dell’altro genitore.

Dall’altro versante sulla crescita del figlio stesso, che è inserito in un processo in cui sono
maggiormente possibili assetti flessibili e differenziati, piuttosto che stabili e predeterminati (come quelli dati dalla determinazione del fine settimana all’uno e dei giorni feriali all’altro), tale da poter permettere la fluidità propria di processi di incertezza (poter dire o confidare all’uno o all’altro genitore in quanto le situazioni della vita quotidiana lo consentono; poter percepire che gli scambi tra mamma e papà non sono tutti “uguali” ma ve ne sono alcuni più conflittuali alcuni meno conflittuali e alcuni di condivisione).
A ciò va aggiunto che il figlio viene inserito in una trama di rapporti in cui per primo può avere un raggio di azione, cioè da agente “protagonista” e non da chi viene protetto dalle situazioni.

E’ chiaro che gli elementi qui riportati rappresentano ciò che è completamente
“altro” rispetto a quanto il senso comune afferma: cioè, che in presenza del conflitto la
soluzione è allontanarsi, è non vedersi, è stare il più lontani possibile così da mantenersi
nella possibilità di non avere a che fare con chi riteniamo ci abbia arrecato un danno; in
presenza della controversia o conflitto i minori vanno protetti allontanandoli, la protezione
dei minori è intesa partendo dal principio, fallace, che il minore è per definizione un
soggetto vulnerabile.

Queste parole possono dunque risultare “lontane” da ciò che per senso comune siamo abituati ad affermare; tuttavia la scienza asserisce che l’individuo, e il minore in particolar modo, è inserito in un processo diacronico di cambiamento continuo, non è mai uguale a se stesso (dimensione biologica, cellulare ecc…) e in secondo luogo la scienza asserisce che l’individuo, e anche qui, in particolare il minore, quanto più si fa gestore delle situazioni in cui si imbatte tanto più si “protegge”.

La protezione del minore è pertanto emanazione delle forze/delle energie che il minore stesso può innescare nelle situazioni critiche in cui può trovarsi e non viceversa trovandosi inserito in un contesto in cui le situazioni siano gestibili dalle potenzialità che è già in grado di esprimere.

Rispetto a quanto fin qui posto, avendo una limitata sperimentazione italiana di
un modello equilibrato, è possibile citare solo studi condotti all’estero. A partire dalle
osservazioni di Fabre (1985, “Un nouveau mode de garde : la garde alternée” , Le Journal
des Psychologues, 28, p. 37), sono da ricordare gli studi di Guilmaine, che descrive
l’esperienza canadese, (La garde partagée, ed. A. Stanké, 1991), fino all’analisi di I. Stock
relativa alla situazione in California (The Californian Law on the relation between divorced
parents and their children, 1994). Quanto alla Francia, che nel 1999 inizierà a formalizzare
la residence partagée con il rapporto Dekeuwer-Faussée, è necesssario rammentare
precedenti studi, come quello di Neyrand, L’enfant face à la séparation des parents. Une
solution, la résidence alternée, (1994) e quello di Poussin e Martin Leubern su un
campione di 3000 bambini (Conséquences de la séparation parentale chez l’enfant, 1997).

L’indagine dimostra che la residenza alternata, con relativa frequentazione equilibrata dei
due genitori, accresce l’autostima, la fiducia in sé e il senso di sicurezza, portando queste
qualità a un livello superiore a quello raggiunto dai figli allevati da un genitore solo.
Decisamente fondamentale il review di Robert Bauserman (“Child Adjustment in Joint-
Custody Versus Sole-Custody”, Journal of Family Psychology, Vol 16 March 2002),
soprattutto per l’elevatezza del campione. Furono, difatti, presi in esame 33 studi condotti
su 1846 bambini allevati da un genitore solo e 814 bambini in affidamento alternato.
Ancora una volta si mette in evidenza come i figli con equilibrata frequentazione di
entrambi i genitori presentino più elevati rendimenti scolastici, maggiore autostima un
comportamento e una migliore relazione con l’intero ambito parentale. Tra gli studi più
recenti, confermano le precedenti conclusioni sui vantaggi di tipo comportamentale per i
figli Anna Sarkadi, Robert Kristiansson, Frank Oberklaid e Sven Bremberg (“Fathers’
involvement and children’s developmental outcomes: a systematic review of longitudinal
studies”, in Acta Pædiatrica 2008, p. 97) i quali in particolare sottolineano il positivo
apporto della presenza del padre nelle mansioni di cura. L’analisi è amplissima,
raccogliendo i risultati di 24 studi longitudinali, condotti in ogni parte del mondo, a ulteriore dimostrazione della oggettività dei risultati. Di notevole interesse il fatto che le
positive osservazioni siano relative all’intero gruppo familiare, avendo potuto concludere
che anche alle madri l’affidamento alternato reca vantaggi, riducendo i problemi di natura
psicologica dei soggetti più giovani, legati ai sensi di colpa nei confronti dei figli,
conseguenti alla separazione.

L’idea, pertanto, del doppio domicilio, lungi dal dover essere considerata di potenziale
pregiudizio per il minore deve essere vista come un fondamentale strumento di tutela ai
fini di un corretto ed equilibrato sviluppo.

Si può dunque concludere che nel bilancio complessivo nella salute del figlio certamente
quindi per lui meno di sacrificio perdere un po’ di tempo a frequentare due case che non
perdere la possibilità di avere un riferimento ad entrambi i genitori. Il che significa
concludere a favore della soppressione della prassi della nomina di un “genitore
collocatario”.

Cenno sulla mediazione familiare
Se vogliamo deconflittualizzare gli assetti familiari è necessario disporre di uno strumento
potenziandolo al massimo. La proposta del DDL 2454 è quella di una mediazione il cui
passaggio informativo sia obbligatorio (quindi non una mediazione a condizione di
procedibilità come accaduto recentemente in ambito civile e commerciale per i diritti
disponibili, si vedano i D.Lgs 28/2010, D.M. 180/2010, D.M. 145/2011).

Lo scarto culturale che la normativa sull’affidamento condiviso pone e in particolare la
possibilità di mantenere integro il nucleo allevante richiede che gli operatori del diritto e
delle politiche sociali adottino in modo anticipatorio quegli strumenti, tra cui la mediazione
familiare, che consentano a ciascun genitore di concorrere al processo decisionale
congiunto, per definire forme di regolamentazione sia contingenti sia stabili in vista della
tutela del minore. Questo perché se le soluzioni sono decise e imposte dal giudice o da
altri terzi i genitori possono mantenere divisioni e contrapposizioni, per cui per quanto
definiti tempi e compiti suddivisi, il figlio continuerà a vivere entro logiche e modalità
interattive che producono separazione e contrasto, divenendo un contenuto rispetto al
quale i genitori possono fare un uso di attribuzione di colpa all’altro, anziché di
condivisione di modalità di gestione. La mediazione, per l’obiettivo che si pone, può essere
strumento che consente ai genitori di configurarsi come nucleo integro che valuta sceglie e
decide nell’interesse comune, ovvero la salute del figlio.

Ora, in virtù di quali aspetti è necessario che il Legislatore si occupi di vincolare la coppia
genitoriale in prima istanza a espletare un tentativo obbligatorio?
Uno degli argomenti che sono sollevati, in termini di critica all’applicazione di questo
strumento, riguarda il fatto che la mediazione possa risultare efficace solo laddove
volontariamente scelta dalle parti. A questo argomento è possibile rispondere
considerando che certamente il cittadino che legittimi la mediazione come istituto è già
nella condizione di accettarne la declinazione dei suoi presupposti rispetto al proprio singolo caso, in tal modo rendendo maggiormente possibile l’efficacia del percorso, in
quanto in grado già (di per sé) di concorrervi.

Negare, in forza di questa affermazione un passaggio informativo obbligatorio alla mediazione comporta dimenticare che la mediazione è in primo luogo uno strumento di carattere culturale, cioè un dispositivo tecnico scientifico che è generatore di paradigmi di giustizia, tale per cui mantenerla esclusivamente in forma volontaria implica utilizzare uno strumento per tutti coloro che questo scarto culturale lo hanno già compiuto. La questione qui presentata non rappresenta di per sé una novità.

Si pensi ai vantaggi, individuali e collettivi, dell’introduzione dell’uso obbligatorio delle cinture di sicurezza o del casco, o ancora del divieto di fumo nei locali pubblici. In questi casi, esiste un interesse pubblico dello Stato alla salvaguardia delle vita che non può essere lasciato alla volontà del singolo.

Analogamente, permettere al singolo di usare risorse giudiziali, che per definizione sono
limitate, legittimando che tutte le controversie o conflitti siano destinati al tribunale,
equivale a mantenere sul piano culturale lo status quo di una amministrazione della
giustizia che è emanazione di un Paradigma di carattere sanzionatorio. Allo stesso modo
non ci pare corretto affermare che un passaggio preliminare limiti l’accesso diretto dei
cittadini alla giustizia: non si può parlare di interdizione all’accesso alla giustizia in quanto
si tratta di uno strumento che obbedisce a fini sociali e al medesimo tempo di tutela dello
stesso cittadino.

La mediazione risulterà efficace nella misura in cui offrirà un servizio che vincoli le parti ad
allontanarsi via via dai criteri del “torto-ragione”, “vittima-colpevole” per iniziare ad
adottare a criteri relativi alle conseguenze delle azioni che vengono attuate, alla
definizione di obiettivi condivisi, alla analisi di aspetti critici rispetto agli obiettivi prefissati
e alla individuazione di strategie condivise. Questi criteri consentiranno di addivenire alla
stipula di accordi la cui tenuta è garantita dal grado di condivisione generata nel processo
di mediazione.

Per promuovere un criterio di efficacia dell’intervento di mediazione gli aspetti
caratterizzanti il profilo di competenze del mediatore e l’accreditamento che un centro di
mediazione dovrebbe ricevere dalle Istituzioni devono trovare fondamento:
* in modelli operativi delineati e con espliciti riferimenti a teorie scientifiche,
* metodologie che mettano nella condizione di valutare l’efficacia degli interventi di
mediazione, per dare contezza e ragione della misura in cui la mediazione è in
grado di raggiungere gli obiettivi che si prefigge,
* metodologie che testimonino alla comunità che l’adozione di questo strumento è
in grado di abbattere i costi di altri servizi e di portare benefici alla comunità.

Prof. Gian Piero Turchi

LINK AL DOCUMENTO ORIGINALE

http://www.centriantiviolenza.eu/dirittoeminori/957_Turchi_Univ_Padova.pdf

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