Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale

Il termine “mobbing” è stato utilizzato per la prima volta da Konrad Lorenz, nel descrivere gli attacchi di piccoli gruppi di animali contro uno più grande e isolato, per allontanarlo dal gruppo (o dal nido). Nel 1984 lo psicologo tedesco Heinz Leymann espose in un libro, insieme a Gustavsson, le ripercussioni di chi è costretto a subire un comportamento ostile e prolungato nel tempo da parte dei superiori e dei colleghi di lavoro.

Scopo del “mobbing” in ambiente lavorativo “è devitalizzare il “mobbizzato”, emarginarlo, fino alla resa inducendo il lavoratore alle dimissioni, a richiedere il prepensionamento per malattia professionale o creare le condizioni favorevoli al licenziamento, senza che si crei un “caso sindacale”.” (Ege, 1999)

I “mobber”, sostiene Ege, “agiscono con l’arma della parola e l’arma dello psicoterrore, dall’assegnazione di compiti dequalificanti o troppo elevati o pericolosi, in più, oltre alla violenza psicologica e verbale, usano armi subdole e imprevedibili come il sabotaggio.” (Ege, 1999). Leyman sostiene che “In this type of conflict, the victim is subjected to a systematic, stigmatizing process and encroachment of his or her civil rights” e che ” Psychological terror or mobbing in working life involves hostile and unethical communication which is directed in a systematic manner by one or more individuals, mainly toward one individual, who, due to mobbing, is pushed into a helpless and defenseless position and held there by means of continuing mobbing activities.”. (Leyman, 1999)

Leymann ha definito nel LIPT (Leymann Inventory of Psycological Terrorism) (Leymann, 1999) un elenco di quarantacinque comportamenti mobizzanti. Questi sono ripartiti in cinque punti, che elencano le costrizione subite dalla vittima: nella possibilità di comunicare adeguatamente sul posto di lavoro, in quella di mantenere adeguati contatti sociali sul lavoro, circa la reputazione personale, riguardo alla possibilità di lavoro (gli viene tolto il lavoro, gli vengono dati compiti insignificanti, ecc.); nella salute (gli vengono dati lavori pericolosi, viene attaccato fisicamente, molestato sessualmente).

Per quanto riguarda le patologie conseguenti al mobbing, Ege riferisce che “Nell’esperienza della Clinica del Lavoro di Milano, il disturbo dell’adattamento è largamente prevalente (oltre i 2/3 dei casi con caratteristiche di attendibilità), mentre il disturbo post-traumatico da stress (stessi sintomi del disturbo dell’adattamento, ma più gravi e con possibilità di sequele associato a intrusività del pensiero, comportamenti di evitamento di situazioni che possano – anche indirettamente – richiamare il problema lavorativo, e blocco dell’io) rappresenta un evento meno frequente. Circa un terzo della casistica totale è, infine, costituito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia”. (Ege, 1999). Il risarcimento del danno biologico ed esistenziale da mobbing accertato è attualmente prassi consolidata.

Recentemente, si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”. Una sentenza della Corte di Appello di Torino lo ha ritenuto, in motivazione, causa giustificante della addebitabilità comportamenti assimilabili al “mobbing”: i “comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; avuto riguardo “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali comportamenti sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”. (Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000).

Tale “mobbing familiare” (differente dal “Doppio Mobbing”, che indica le ripercussioni del mobbing sulle relazioni familiari del soggetto mobizzato) è, secondo alcuni autori divenuto tanto importante, che “si auspica che presto il mobbing familiare o coniugale venga considerato reato per legge e severamente sanzionato”.(“Rassegna dell’Ordine degli Avvocati di Napoli” Anno V – N.3 Luglio-Settembre 2001″). Altri ancora, hanno ipotizzato che in caso di comportamenti del genere il danno esistenziale così prodotto si candiderebbe “a categoria autonoma di danno autonomamente azionabile ex art. 2043 c.c.” (Petrilli, 2003).

Secondo alcuni autori, spesso “il Mobbing viene posto in essere da quei coniugi che artatamente ed in modo preordinato tendono, con atteggiamenti “persecutori”, a costringere i loro partner a lasciare la casa familiare o addirittura a giungere a separazioni consensuali pur di chiudere rapporti coniugali belligeranti e sofferti, dietro i quali spesso si celano rapporti extraconiugali o altro É Questo tipo di mobbing culturale applicato e ritrovabile con frequenza nei rapporti coniugali caratterizzati da una forte e lacerante conflittualità coniugale, trova radici anche in fenomenologie giuridiche recenti, che la Suprema Corte con altri termini ha giustamente sanzionato, come ad esempio: “L’incompatibilità ambientale”, il “Tradimento apparente” É o ancora “l’induzione preordinata alla separazione coniugale” (Ciccarello, 2002).

Ege nega l’esistenza del “mobbing familiare” (Ege, 1999), in quanto intende applicabile il termine al solo contesto lavorativo. Tale preclusione ci appare francamente paradossale e di scarsa sostenibilità: il concetto di “mobbing” deriva da un comportamento animale, e dunque o non lo si estende ad alcuna interazione umana o, se se ne accetta il “salto di specie”, ogni successiva limitazione è arbitraria, ed esso può applicarsi a qualunque contesto interattivo finalizzato all’estromissione di un individuo da un contesto cui questi legittimamente vuole o a ha bisogno di appartenere in qualche modo.

Un modello che risponde pienamente a tale descrizione è frequentemente individuabile nelle situazioni di separazione coniugale.

Due coniugi separati costituiscono il sottoinsieme genitoriale residuo alla disgregazione dell’insieme familiare. Sul piano della relazione, e del relativo “potere” decisionale, hanno ruoli apparentemente simmetrici. Tale formale lettura delle relazioni coniugali è però, al contrario, solo la chiave per spiegare come mai, sino ad ora, i modelli di ostilità cronica finalizzati all’estromissione di uno dei genitori da ogni sottoinsieme del residuo alla separazione, non siano stati “letti”, come “mobbing.

L’istituto dell’affido monogenitoriale attribuisce infatti al genitore affidatario l’esercizio della potestà genitoriale sui minori affidatigli, ma riserva ad “entrambi i coniugi” le decisioni di maggior interesse: art. 155, c.c. “Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi ; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.” Nei fatti questo si traduce spesso (e, nelle situazioni di elevata conflttualità sempre) nel far sì che qualsivoglia decisione circa i minori può così di fatto esser da lui adottata anche in assenza di ogni partecipazione dell’altro. Il quale, per far valere le proprie opinioni su un piano di parità decisionale, può solo adire il Giudice Tutelare, con tempi di attesa smisurati e, nei fatti, nessuna possibilità di intervento concreto.

Tale contesto permette, al genitore affidatario, l’esatta “traduzione” nel sottoinsieme genitoriale di comportamenti tipici del “mobbing” lavorativo. Tali comportamenti si esplicano in quattro differenti campi: sabotaggi delle frequentazioni con il figlio, emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori, minacce, campagna di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale.

I sabotaggi delle frequentazioni trovano radice nella facilità che il genitore affidatario ha di non incorrere in alcuna sanzione penale nel caso impedisca colposamente o dolosamente le frequentazioni statuite tra il figlio e l’altro genitore. Malgrado le espresse previsioni dell’art. 388 (Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice), nel quale rientra la fattospecie del genitore che non osserva il regime di frequentazione statuito dal Magistrato competente, la concreta punibilità di chi commette fatti del genere è estremamente frequente.

Nei casi di media o grave conflittualità il minore, soprattutto se di piccola età, più o meno frequentemente (a volte spesso o quasi sempre), non viene consegnato all’altro genitore con scuse banali, o semplicemente senza spiegazioni, oppure rifiutato per mezzo di scenate che comprendono accuse anche gravi. La presenza o l’arrivo di agenti di Polizia Giudiziaria non ostacola, salvo in casi rarissimi, quello che a tutti gli effetti è un comportamento criminoso. In altri casi, il genitore deve incontrare i figli in situazioni degradanti o umilianti: alla presenza di parenti dell’altro genitore, o di persone illecitamente incaricate di “sorvegliarlo”, ad esempio, o con modalità che lo spogliano di qualunque ruolo genitoriale – come quando deve eseguire i programmi extrascolastici (piscina, judo, musica, scacchi, ecc.) stabiliti dall’ex partner a sua insaputa, e fissati proprio nei suoi giorni di frequentazione: ciò lo trasforma nell’autista dei propri figli e lo priva di ogni ruolo genitoriale anche nel determinare il tempo passa con loro. Altre volte dovrà rinunciare alle vacanze estive o natalizie, essendo il o i minori “prenotati” per attività più gratificanti (classica la madre che prenota la settimana bianca o il club di lusso quando i figli dovrebbero partire con il padre per posti meno appetibili: nella nostra casistica c’è una madre che portò i figli in vacanza nella settimana in cui sapeva dover nascere il loro fratellino).

Si ricorda qui incidentalmente, che una delle ultime più tragiche Buy Generic Cialis stragi commesse da un padre separato, suicidatosi dopo aver ammazzato l’ex moglie e i figli, avvenne (luglio 2003) poco dopo che gli era stata notificato che, su richiesta ex novo della ex moglie, avrebbe dovuto svolgersi in Tribunale un’udienza, che andava a cadere proprio nel periodo da trascorrere con i figli nella sua terra d’origine. Secondo i familiari dell’uomo, un Ispettore di PS, l’ex moglie, avendo la possibilità di prevedere i tempi di fissazione dell’udienza, aveva fatto in modo che questa cadesse proprio nel periodo di frequentazione estiva del padre con i figli, per impedirgli di allontanarsi con i piccoli. La strage avvenne nel giorno in cui l’uomo sarebbe dovuto partire.

In altri casi, viene eseguita la classica “relocation”: il minore è trasferito con il genitore affidatario in una città lontana. I suoi incontri con l’altro genitore diventano difficili e impossibili, non vengono permesse modifiche al regime di frequentazione che rendano più facile, nella sopraggiunta situazione, i contatti con i figli, e per tentare di ottenerle occorre adire la Corte competente, con aggravio di tempi e costi. Le sottrazioni internazionali di minore rappresentano il tragico e macrosistemico estremo cui arriva questa forma di ostilità.

E’ vero che esistono strumenti giudiziali di controllo espressamente previsti per simili abusi, ma vale anche qui quanto detto prima: si tratta di strumenti di rara applicazione concreta, per via delle difficoltà del sistema giudiziario a intervenire in tempi brevi e su contesti quali quelli delle relazioni familiari.

L’emarginazione dai processi decisionali è anch’essa frequente: al genitore non affidatario viene impedito di partecipare a scelte fondamentali per la vita del figlio (istruzione, salute, viaggi, ecc.): ad es. sa solo a cose fatte a quale scuola, e di quale indirizzo, è stato iscritto il ragazzo; deve appurare personalmente quali sono i docenti, gli orari della scuola e del figlio e quanto da sapere circa i risultati scolastici del figlio. Spesso i bidelli e insegnanti ricevono ingiunzioni di non far avvicinare i figli l’altro genitore, e i contatti di questi con gli insegnanti sono preceduti da campagne di denigrazione. In caso di malattia non viene avvertito e apprende di esse e addirittura di ricoveri, solo a cose fatte, o allorchè gli viene impedito, illecitamente ma con tali motivazioni, di incontrare il figlio. In questi casi, l’esautorazione del genitore non affidatario viene spiegata con un suo difetto, che lederebbe l’equilibrio psichico e fisico del minore: o è un genitore “disattento”, o “morbosamente” attento alle sue condizioni di salute.

La campagna di denigrazione (ovviamente frequentemente reciproca), spesso accompagnata da minacce (“ti riduco sul lastrico!”, “ti faccio finire in galera”), prevede il ricorso a una vasta gamma di accuse presentate a tutto campo: al figlio, a tutta la rete amicale e familiare dell’ex coppia (o, anche, negli ambienti scolastici ed extrascolastici frequentati dal figlio), in sede giudiziaria (ormai tipiche le denunce: gravi, come quelle di abuso sessuale e/o maltrattamenti, tendenzialmente meno gravi le altre: violenza o danni nei confronti dell’altro genitore, sottrazione di minore per pochi minuti di ritardo, ecc.). Come noto le denunce di abuso comportano quasi automaticamente la sospensione delle frequentazioni genitore-figlio, che possono riprendere solo in ambiente c.d. “protetto”, che a prescindere da ogni professionalità con il quale vengono seguiti, com portano comunque una umiliante svalutazione della figura genitoriale.

La “punizione del marito” può essere ottenuta anche attraverso il coinvolgimento e la manipolazione di persone terze in azioni dolose (persone appartenenti al nucleo familiare, conoscenti, ma anche gli stessi professionisti – medici, psicologi, avvocati, ecc. – che si trovino ad avere rapporti con la madre). In questo caso, «è importante rilevare che la persona manipolata dalla madre è stata in qualche modo coinvolta nella rabbia della madre e «alienata» dal marito di questa in procinto di divorziare. (Rapporto Eurispes, 2002)

Vale comunque, anche qui, quanto si vale per tutte le altre forme di “mobbing” umano: “Il meccanismo della persecuzione è implacabile e può avvalersi di mille piccoli gesti quotidiani, che conducono irrimediabilmente verso l’isolamento.” (Ege, 1999).

Nei quadri estremi abbiamo due esiti: o quella che viene definita PAS, Sindrome di Alienazione Genitoriale, vale a dire la partecipazione del minore alla campagna di denigrazione contro il genitore non affidatario, con il rifiuto di ogni rapporto con questi; o l’esautorazione quasi spontanea del genitore non affidatario da ogni aspetto della vita del figlio, potendosi arrivare a comportamenti che sono l’analogo delle dimissioni forzate in ambiente lavorativo: il padre che rinuncia più o meno “spontaneamente” ad esercitare il proprio ruolo perché non può far fronte agli ostacoli che ne mobizzano il ruolo.

Il “terrore psicologico” citato da Leymann ed Ege e che costituisce il nucleo dell’esperienza mobizzante è sperimentato in una fin troppo ampia gamma di possibilità: si è terrorizzati dall’idea che, senza nemmeno preavviso alcuno, siano resi impossibili tutti i contatti (anche telefonici) o gli incontri con i propri figli, ivi incluso l’averne notizie; ogni squillo di telefono o di campanello rappresenta la paura di un nuovo fax, una nuova raccomandata, una telefonata dell’avvocato o una visita dei Carabinieri che annunciano nuove aggressioni, nuovi problemi, nuovi impedimenti. Il “doppio mobbing” arriva così a coinvolgere anche l’eventuale nuova famiglia (e, spesso, anche la nuova prole) del genitore non affidatario mobizzato.

Studi americani dimostrano che fra i genitori separati (in genere i padri, per logica statistica) è presente la stessa tipologia di psicopatologia dei lavoratori vittime di mobbing (Braver, et al., 1998) (Rowles, 2003). Nelle statistiche loro e di altri studiosi (vedi Rowles, 1998) vi è poi il rilievo che il padre economicamente inadempiente verso i figli è con grande frequenza un padre mobizzato dal suo ruolo. Secondo i dati della Associazione EX, che ha monitorato gli omicidi in famiglia, i padri separati sono notevolmente sovrarappresentati fra coloro che commettono delitti e stragi di familiari. All’opposto, sono assenti fatti di sangue per disgregazioni di coppie omosessuali sia maschili che femminili (Eurispes, 2002).

All’opposto di quanto ipotizza Ege, noi ci chiederemmo dunque come mai sino ad ora contesti mobizzanti di tal genere non sono mai stati descritti e riconosciuti, anche in sede giudiziaria, come tali, essendo evidenti come le modalità siano quelle della comunicazione non etica e ostile finalizzata all’espulsione di un individuo da un contesto cui legittimamente vuole o ha bisogno di appartenere, identicamente cioè a quanto avviene nel “mobbing” lavorativo. Riflessioni del genere ci porterebbero molto lontani: a ipotizzare collusioni sistemiche e macrosistemiche tra i mobbers genitoriali e tutto un contesto di regole e di ruoli, politici e professionali, delegati a gestire questi problemi a più livelli.

A nostro avviso è improcastinabile riconoscere che il mobbing genitoriale in conflittualità di separazione è un gravissimo problema sociale, in grado di provocare alti costi umani e sociali, e che occorre dotarsi di strumenti di prevenzione e tutela adeguati. Va riconosciuto come causa di un doppio danno biologico (per le conseguenze che provoca sui minori), deve essere presa in seria considerazione l’ipotesi di sanzionarlo come reato contro la persona, occorre modificare tutti quegli strumenti legislativi e giudiziari che ne legittimano l’espandersi ad ogni coppia incapace di gestire la propria conflittualità.

Gaetano Giordano

BIBLIOGRAFIA:

Braver, et al. Divorced Dads: Shattering the Myths, Edition Hardcover ,1998

Ege H., Il fenomeno, in Mobbing Online, in http://www.mobbingonline.it

Eurispes-Telefono Azzurro, 3° Rapporto sulla Condizione dell’Infanzia e dell’adolescenza, 2002

Leymann, H., 1999, The mobbingEncyclopaedia, in http://www.Leymann.se;

Petrilli D., Mobbing familiare e coniugale, LEX et JUS – luglio 2003, Napoli

Rowles G., The “Disenfranchised” Father Syndrome, Trad. it. di A.Vanni – S. Ciotola – G. Giordano, 2003, Psychomedia

Ciccarello M. E., Il Mobbing in Famiglia, Centro Studi Bruner, Master in Med. Familiare, 2002

[Fonte:  © PSYCHOMEDIA]

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