Prostituta denuncia: le femministe mi hanno sfruttata per odiare gli uomini

(Lettere pubblicata da l’Espresso).

Gentile direttore, mi chiamo Ornella, faccio la puttana e sono stufa di essere sfruttata. Non però dai miei clienti, coi quali stipulo volta per volta, con reciproca soddisfazione, un onesto contratto verbale. Né dal mio supposto protettore, poiché lavorando in casa col telefono il numero è reperibile fra i piccoli annunci di un rispettabile quotidiano), non ho bisogno di un macrò che mi protegga dai pericoli della strada. Sono invece stufa di essere sfruttata da tutte quelle persone piene di buone intenzioni che col pretesto di interpretare i nostri bisogni, rivendicare i nostri diritti e salvare l’anima al mondo intero, fanno carriera e soldi divulgando frottole sul mio conto.

Alludo – l’ avrà compreso – al fiume di sciocchezze con cui è stata gonfiata e commentata sulla stampa la ridicola vicenda del filmetto sulla “squillo” Véronique. Alienata, ghettizzata, reificata, vittimizzata, sfruttata: questi sono gli epiteti affibbiatimi da psicologi e giornalisti, antropologi e sociologi, preti e femministe. Autoritari, fallocrati, maschilisti: ecco altri epiteti, riferiti stavolta ai miei clienti dai medesimi “esperti”. Inautentico, mercificato, squallido: altri epiteti ancora, con cui queste zelanti persone definiscono infine il rapporto fra me e la mia clientela. Ma che vorranno dire? Di tutte queste parole non capisco moltissimo. Ma una certa istruzione ce l’ho anch’io, e riflettendo bene credo di aver capito questo: nel loro linguaggio, che pretende d’essere scientifico e obbiettivo, tutte queste parole, pregne come sono di una connotazione dispregiativa, svolgono la stessa funzione dei termini con cui noi e i nostri clienti venivamo bollati una volta dal linguaggio religioso. Equivalgono, cioè, a ingiurie come “donnaccia”, “depravata”, “peccatore” e così via. Insomma non sono altro che nuove sioni di un’antica bigotteria mascherate da concetti psicologici, sociologici e antropologi.

Sfruttata io? Come ho già detto mi sono sentita tale davvero solo quando ho visto che un gruppetto di signore [femministe] filmando furtivamente una giornata di lavoro di quella mia vanitosa e spregiudicata collega francese hanno ottenuto fama, prestigio e danaro offrendo a un battaglione di presunti esperti il pretesto per inondare il paese di saccenti corbellerie. I miei clienti, ai quali mi concedo soltanto fra le 17 e le 20 di ogni giorno, sabato e domenica esclusi, mi assicurano un reddito annuo di circa 70 milioni esentasse. Perché dovrei considerarli degli sfruttatori?

Ghettizzata io? Ma la mia esistenza non si esaurisce nel grazioso bicamere all’ Aventino in cui lavoro. A parte le serate libere, weekend coi veri amici e i grandi viaggi estivi di cui sono fanatica, posso dedicare tutte le mie mattine ad altre occupazioni: un negozietto messo su coi miei risparmi, un po’ di gioco in Borsa e qualche brillante relazione personale. Si dirà che la mia condizione resta segnata da una divisione “schizofrenica” fra il mio inconfessabile lavoro e il resto della mia vita. Ma questa “scissione” non mi sembra affatto un tratto peculiare della condizione puttanesca. Quante persone “per bene” evitano con cura di far conoscere ai propri cari certi umilianti e lacrimevoli aspetti della loro vita pubblica, o viceversa di rendere pubbliche le loro vergogne familiari?

Alienata e reificata io? Se queste parole, come mi è stato spiegato, significano che io, nel mio lavoro. anziché esprimermi e realizzarmi, divento una “cosa” o un “oggetto”, è da visionari applicarle a quelle donne, più o meno giovani e graziose come me che hanno scelto questa attività. Mi permetta innanzitutto di osservare che anche se questo lavoro fosse per noi soltanto un “alienante” fonte di guadagno, tutte noi continueremmo a preferirlo ad altri lavori ugualmente “alienanti’ ma assai meno remunerative, di cui mi esimo dal fare l’elenco. E poi, per dirla tutta, non è per niente vero che io non mi “esprimo” nel mio lavoro. Molti miei clienti mi attribuiscono infatti qualcosa, come un’attitudine speciale, ed io stessa, quando mi chiedo perché ho scelto questa professione, sento confusamente che il denaro non spiega proprio tutto. Non si tratterà anche di un certo talento?

Insomma, io non mi sento affatto una “vittima”, e tanto meno un “carnefice”. Penso piuttosto di essere una donna che una fortunata e sovente invidiata costituzione fisica e psichica ha reso capace di offrire alcune speciali soddisfazioni a una vaste categoria di uomini. Del resto sono proprio queste “doti”, congiunte allo stile al tempo stesso semplice e delicato, riservato e diretto, con cui eseguiamo il nostro lavoro, garantendo ai nostri amici l’assenza di ogni ulteriore strascico o complicazione, ad assicurare quel che a certi “esperti” sembra inspiegabile: il persistente nostro successo in un mondo ormai pieno di donne disposte “anche” a fare un po’ le porche. Beh, con i nostri clienti noi non facciamo “anche” le porche. Facciamo le porche “e basta”. Ecco la piccola ma eccitante “differenza” per la quale siamo ancora così ricercate.

E ora vorrei dire qualche parola in difesa dei miei clienti e sulla natura dei loro rapporti con me. Secondo i non richiesti difensori della mia causa, i miei clienti sarebbero dunque dei disgustosi campioni di maschilismo e di autoritarismo. Posso invece assicurarle che, salvo rare eccezioni che so perfettamente fronteggiare, essi sono di una commovente mitezza, e spesso addirittura di un infantile remissività. Non escludo che in famiglia, con gli amici o sul lavoro essi possano diventare violenti e aggressivi, cioè appunto maschilisti e autoritari. Ma da me si comportano come agnellini: cioè con la misura e la discrezione che dovrebbero caratterizzare tutte quelle relazioni che alcuni chiamano, come ho appreso in questi giorni, “interumane”. Sicché a volte mi chiedo se quel che i miei clienti cercano da me non sia appunto e soprattutto questo: l’innocente miraggio di un’ infanzia serenamente viziosa.

Trovo poi sciocco definire questi rapporti “mercificati”; non sono forse tali tutti i rapporti professionali, compresi quelli di questi saccenti signori coi loro datori di lavoro: la Tv, la stampa, l’Università? Trovo ingiusto sogghignare sul loro lato ridicolo. Un uomo in pedalini che si sciacqua il pisello prima o dopo una scopata è forse più ridicolo di un sociologo che porta la borsa a un ministro? E infine trovo davvero ridicola la pretesa di condannarli perché “inautentici”: Che cosa vi autorizza a credere “inautentico” il desiderio che spinge tanti uomini a cercarmi? La presunta illusorietà del godimento che darò loro? Ma quanti altri godimenti umani non sono ancor più illusori? E più pericolosi? E più funesti?

Un’ultima parola sullo “squallore” di ciò che avverrebbe sul mio letto o nei suoi dintorni. Giorni fa, per meglio impadronirmi di un linguaggio adeguato, al proposito di dire la mia sull’argomento, ho pregato un mio cliente, uno studente, di accompagnarmi a un dibattito sulla “felicità” organizzato da un collettivo di femministe. Che malinconia. M’è venuta una tristezza! Altro che lo squallore delle laconiche scenette che avvengono da me…

Grata dell’ospitalità che mi concede, La saluto, con affetto e ammirazione, la Sua Ornella. Della quale Le piacerà apprendere, spero, che ha una bella chioma rossa, grandi occhi azzurri, una figura più rotondetta che longilinea e tutto il resto a posto.

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