La violenza di genere è una calunnia femminista

Riassunto

Viene riassunta la letteratura scientifica che concordemente mostra che uomini e donne sono violenti in egual misura. Molti autori di questi studi hanno subito minacce di morte ad opera di femministe che hanno costruito ed istituzionalizzato la calunnia di genere, secondo cui la violenza sarebbe una prerogativa maschile.

1. Introduzione

Gli studiosi dell’AEMA (Associazione spagnola per lo Studio del Maltrattamento e dell’Abuso) hanno riassunto i risultati delle centinaia pubblicazioni scientifiche prodotte nel mondo in tema di violenza domestica, dalle quali emergono i seguenti risultati:

  • La violenza lieve colpisce principalmente: gli uomini (secondo 166 pubblicazioni), le donne (secondo 57 pubblicazioni); in misura simile uomini e donne (secondo 92 pubblicazioni);
  • La violenza grave colpisce principalmente: gli uomini (secondo 76 pubblicazioni), le donne (secondo 31 pubblicazioni); in misura simile uomini e donne (secondo 29 pubblicazioni);
  • Ad avviare in modo preponderante la violenza domestica sono le donne (secondo 51 pubblicazioni); gli uomini (secondo 13 pubblicazioni); in misura simile uomini e donne (secondo 11 pubblicazioni).

Nella sezione 3 viene presentato il report completo, che così falsifica l’ideologia femminista secondo cui esisterebbe una “violenza di genere” di cui le donne sarebbero vittime e gli uomini colpevoli.

Al fine di costruire ed istituzionalizzare tale “calunnia di genere”, le femministe hanno operato minacce di morte contro gli autori e le autrici di molte di tale ricerche, come riassunto nella sezione 2.

Il termine “calunnia” è appropriato in quanto tale opera di falsificazione della realtà ha prodotto un profluvio di calunnie contro uomini, operati in particolare nel corso di separazioni.

Natasha Spivack ha presentato il primo studio sulle false accuse:

  • L’11% delle persone hanno subito false accuse.
  • Le persone falsamente accusate erano all’81% uomini ed al 19% donne.
  • Le false accuse sono fatte al 70% da donne, al 30% da uomini.
  • Il 26% delle false accuse sono fatte per dispute sull’affidamento dei figli.
  • Le false accuse più usate sono: abusi su minori (74%), abusi sessuali (48%), violenza domestica (29%).

La giornalista Vicki Larson dell’HuffingtonPost (il più seguito giornale on-line del mondo) informa che, mentre la violenza colpisce uomini e donne in misura circa uguale, gli uomini vengono colpiti 19 volte più delle donne da false accuse, perpetrate all’85% da donne con figli che divorziano.

 

2. La costruzione della calunnia di genere

Non ho dubbi che prima o poi la distorsione della verità
compiuta dalle femministe radicali verrà vista come
il più grande crimine intellettuale della seconda metà del XX secolo.
Oggi viviamo sotto l’aegis di questo crimine,
e segnalarlo è un atto di grande coraggio morale
”.

Prof. Howard. S. Schwartz, Oakland University


Erin Pizzey è la donna che per prima sollevò il problema della violenza domestica ed aprì i primi rifugi. Erin operava senza il paraocchi dell’ideologia femminista, e descrisse nel libro “Inclini alla violenza” le osservazioni derivanti dalla sua esperienza: sia le donne che gli uomini sono violenti, in egual misura. Racconta che le femministe minacciavano di morte lei, i suoi figli ed i suoi nipoti, le ammazzarono il cane. Venne espulsa dal partito femminista quando riferì alla polizia di aveva sentito voci di una bomba da mettere in un negozio di vestiti. Quando il team che la proteggeva dalle bombe le chiese di ricevere la posta tramite la loro sede centrale, rinunciò a vivere protetta dalla polizia e scelse l’esilio, trasferendosi in un altro continente.

Le ricerche del prof. Richard Gelles, attualmente preside di Facoltà presso l’Università della Pennsylvania e direttore del Centro di Ricerca su Gioventù e Politica Sociale, lo portarono a concludere che donne e uomini sono violenti in egual maniera. Ricevette minacce di morte; le sue conferenze venivano interrotte da allarmi bomba.

Suzanne Steinmetz, professoressa di sociologia, autrice di 17 libri e 60 articoli scientifici in materia di violenza domestica, arrivò alle stesse conclusioni di Richard Gelles, che pubblicò nell’articolo “la sindrome del marito picchiato”. Oltre a minacce di morte ed allarmi bomba, contro lei ed i suoi bambini (“mi telefonavano a casa dicendo: se non smetti di parlare di uomini picchiati, qualcosa succederà ai tuoi bambini, e non sarà sicuro per te uscire”), le femministe scrissero al rettore della sua Università perché la licenziassero; scrissero alle agenzie del Governo perché le tagliassero i fondi di ricerca.

Quando anche il prof. Murray Straus arrivò alle stesse conclusioni, le femministe interruppero con grida ed urla la conferenza ove le stava presentando. Oltre a minacce di morte ed allarmi bomba, ricorsero a calunnie femministe, accusandolo di aver abusato di sua moglie.

Il saggista e scrittore Neil Lyndon osò scrivere questo sul Sunday Times e nel libro “basta guerra di genere: i fallimenti del femminismo”: oltre ad attacchi personali i suoi scritti furono usati per allontanarlo per anni dal figlio affidato alla madre, che solo da adolescente potè decidere di tornare da suo padre allontanandosi dalla madre alcolista.

Lo psichiatra prof. Richard Gardner identificò la Alienazione Genitoriale classificandola come Sindrome, un disturbo in cui incorrono i bambini obbligati a crescere con un genitore che denigra ed odia l’altro: il caso estremo sono le pedo-calunniatrici che tentano di appropriarsi dei bambini ricorrendo alla calunnia di genere. Per aver tentato di proteggere i bambini da questa forma di abuso ed osservato che l’unica cura efficace è l’inversione della custodia, il professore è stato vittima di una campagna planetaria di diffamazione, mirante a distruggerlo come uomo, che continua ancora oggi dopo la sua morte.

Pascaline Petroff, avvocatessa che si batte per il diritto dei bambini ad avere due genitori anche se separati, ha subito un tentativo di omicidio: due donne la hanno rapita a mano armata urlando slogan misandrici quali “gli uomini sono tutti delle me*de”, per poi lasciarla legata in un bosco innevato. L’avvocatessa riusciva a slegarsi prima di morire di freddo ed a far arrestare le due donne.

 

3. La letteratura scientifica in materia di violenza domestica

Per più di 25 anni si sono messe in dubbio, a volte con asprezza, le indagini che provano che le donne esercitano la violenza fisica contro i loro partner maschi in una percentuale simile a quella degli uomini sulle loro partner femmine.

Tuttavia, i dati di quasi 200 studi sono concludenti.

(Prof. Murray A. Straus, Risk factors for physical violence between dating partners, 2006)

Il presente lavoro ha avuto, come ipotesi di partenza, la reciprocità della violenza nella coppia; e, come scopo, quello di determinare il grado di supporto scientifico che avalla quest’ipotesi a livello internazionale. Il lavoro si è sviluppato in due stadi:

  1. il primo, quello di raccogliere un numero significativo di studi sulla violenza domestica e di elaborare una tabella comparativa con i dati basici di questi studi, ordinati secondo l’anno di pubblicazione. Questa tabella comparativa si presenta come Annesso. Nella selezione degli studi utilizzati non è stato seguito nessun criterio speciale, tranne la condizione indispensabile che si misurino i livelli di vittimizzazione di entrambi i sessi. Si è cercato anche di coprire la più grande estensione geografica possibile, anche se è nell’ambito anglosassone, e in particolare negli stati Uniti, che esistono più indagini sul fenomeno della violenza domestica.
  2. Nel secondo stadio si sono analizzate e riassunte le informazioni più sostanziali di questi studi relativi alla violenza di coppia. Nelle prossime pagine sono esposti i risultati di quest’analisi, corroborati dai dati degli studi: i numeri che figurano tra le graffette (ad esempio: [nº 22]) si riferiscono agli studi corrispondenti della tabella comparativa nell’Annesso.

Alla base ci sono due metodi di misurazione della violenza domestica nella coppia:


  1. Il primo metodo consiste nello studiare unicamente la violenza che esercitano gli uomini contro le donne, ma non quella esercitata dalle donne contro gli uomini. Questi studi o indagini sulla violenza domestica si applicano unicamente alla popolazione femminile, e dopo si pubblicano i dati, che, naturalmente, sono dati che mettono in rilievo la “violenza contro le donne”. Lo chiameremo modello unidirezionale. Questo è il modello adottato dalle più importanti istituzioni internazionali e nazionali per i propri studi: le inchieste mondiali dell’OMS, l’inchiesta Enveff in Francia, [l’inchiesta ISTAT italiana], la macro-inchiesta spagnola o l’inchiesta del BMFSFJ in Germania (completata con uno studio pilota sulla popolazione maschile) misurano solo la violenza della coppia subita dalle donne. È tautologico evidenziare come questo metodo, per omissione, falsifica la realtà della violenza domestica.
  2. Il secondo metodo, quello oggetto di questo studio, consiste nell’applicare le indagini sulla violenza domestica a uomini e a donne nella stessa maniera. Questo misura tanto la violenza esercitata dagli uomini sulle donne quanto quella esercitata dalle donne sugli uomini. È perciò il modello bidirezionale. Anche se le istituzioni spagnole mostrano una forte ostilità verso questo secondo modello di indagine, in altri paesi sono numerosi gli studi ufficiali e indipendenti di tipo bidirezionale. Quasi sempre, le conclusioni di questi studi mostrano livelli similari di conflittualità in entrambi i sessi.

In particolare, questa simmetria di risultati è la caratteristica degli studi più affidabili, cioè, di quelli realizzati su campioni di una popolazione generica, disegnati specificamente per misurare la violenza di coppia e centrati in periodi recenti; di solito sono meno pregiudicanti di quelli basati su campioni statistici senza rappresentatività generale (ad esempio, gruppi clinici, gruppi di vittime o di riabilitazione di autori di maltrattamenti, campioni autoselezionati, archivi polizieschi e giudiziari, ecc.) concepiti originariamente per ottenere altri tipi di informazione (ad esempio, le inchieste per la prevenzione dei reati o crime surveys o i sondaggi sulla percezione sociale della violenza) o relativi a periodi di tempo eccessivamente lunghi (cioè con risposte meno affidabili e più soggette alla sensibilizzazione ideologica predominante).

Dall’altra parte — in contraddizione con la tesi che giustifica la violenza femminile come violenza di risposta o difensiva – gli studi della presente raccolta, che esaminano le condizioni di reciprocità della violenza, constatano livelli maggiori o similari di violenza unilaterale ed iniziazione delle aggressioni fisiche nelle donne. In genere, i livelli di perpetrazione, unilateralità ed iniziazione della violenza sono più alti nelle donne che negli uomini nelle popolazioni giovani, e si equilibrano con l’andare degli anni, fino a diventare simili in entrambi i sessi nell’età pienamente adulta.

Come l’esperienza ha abbondantemente dimostrato, le politiche sulla violenza domestica basate sul modello unidirezionale ignorano la metà del problema e risultano, oltre che inefficaci, controproducenti. Nei conflitti di coppia, tali politiche, basate di più su idee preconcette che su dati obiettivi, creano sentimenti di abbandono istituzionale (nell’uomo) e di impunità e prepotenza (nella donna) che contribuiscono ad accrescere il ciclo di violenza ed a favorire le loro forme più estreme.

Queste sono, a grandi linee, le conclusioni che si ottengono dall’analisi degli 111 studi elencati nella tabella comparativa dell’Annesso.

3.1 Aspetti qualitativi

GLI STUDI DEL MODELLO UNIDIREZIONALE O IL SOFISMA DI PETIZIONE DI PRINCIPIO

Si chiama sofisma di petizione di principio (petitio principii) il metodo di ragionamento che prende come premessa quanto afferma la conclusione, cioè, incomincia affermando quello che si pretende dimostrare. Nel caso della violenza di coppia, le più prestigiose istituzioni internazionali hanno basato la loro opera gigantesca, alla quale hanno consacrato immensi risorse, su una versione sociologica di questo sofisma logico. Hanno preso come punto di partenza la premessa ideologica che la donna è l’unica vittima e l’uomo è l’unico perpetratore di violenza nella coppia, e per fare in modo che la società non avesse alcun dubbio, hanno moltiplicato gli studi atti a “dimostrare” e quantificare la prevalenza di questo “flagello”. In Europa, e in modo speciale in Spagna, questo atteggiamento ufficiale sulla violenza domestica ci ricorda quello di una camera statica che riprendesse unicamente la metà di un terreno di gioco in un campo di calcio: avremmo potuto vedere i goal che segna una squadra, ma non avremmo mai potuto sapere quel che succede nella porta contraria.

Le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le istituzioni europee, i governi di Paesi come Spagna, [Italia], Francia o Germania, e sulla loro scia, tutta la gerarchia di enti locali ed organizzazioni non governative, hanno optato per questo modello unidirezionale per quanto riguarda la violenza domestica. Conseguentemente, tutte le politiche, misure legislative e partite di bilancio che riguardano la violenza domestica sono state adottate con criteri puramente ideologici, lontani da qualsiasi riscontro empirico o scientifico. A priori è stato deciso che esiste solo la violenza maschile, e sono state giustificate le aggressioni femminili come episodi di legittima difesa. Sulla base di questo principio gratuito è stata costruita una complessa impalcatura preventiva e repressiva, basata sull’ignoranza della realtà e su falsi pregiudizi, di cui l’effetto più visibile (e prevedibile) è stato l’aumento della violenza, sicuramente nella sua forma più grave.

Lo “Studio approfondito su tutte le forme di violenza contro la donna”, presentato dalle Nazioni Unite nel 2006, alla pari di tutti gli altri studi presentati da questa organizzazione, adotta la rigorosa prospettiva di genere per esaminare il problema della violenza contro la donna, che definisce come un “meccanismo per mantenere l’autorità degli uomini” [paragrafo 73], e si prolunga su una teoria del patriarcato sostanzialmente identica a quella formulata da Engels nel XIX secolo. [In-depth study on all forms of violence against women http://www.epicentro.iss.it/focus/domestica/onu-violenza.pdf]

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel suo “Studio mondiale sulla salute femminile e la violenza domestica” (2005), meno ideologico e più scientifico, segnala che, all’inizio, era stato deciso di intervistare tanto gli uomini quanto le donne, per confrontare le testimonianze di entrambi ed indagare sulla possibile reciprocità dei maltrattamenti; ma “si è concluso che il fatto di intervistare uomini e donne nella stessa famiglia poteva esporre la donna ad una situazione di rischio di maltrattamento in futuro”. Ciononostante, lo studio considera la violenza esercitata dalla donna sull’uomo un ambito necessario di studio e di approfondimento nelle indagini future. In qualsiasi caso, nel prologo dello studio si manifesta una visione radicalmente pessimista della famiglia: “Lo studio sfida la percezione che il focolare domestico sia un luogo sicuro per la donna, mostrando come le donne rischino di essere sottoposte a violenze di più nelle loro relazioni intime che in qualsiasi altro luogo”, senza mai chiedersi se questa affermazione potesse essere valida anche per gli uomini. Nella “Relazione mondiale sulla violenza e la salute” (2002), l’OMS aveva già adottato un orientamento simile, decidendo in anticipo, su basi empiriche molto deboli e con un criterio più ideologico che scientifico, che “la violenza nella coppia è sopportata in percentuale schiacciante dalle donne e inflitta dagli uomini”. Quest’orientamento ideologico risulta ancora più ingiustificabile se si considerano i risultati del Progetto ACTIVA [nº 60], realizzato dall’Organizzazione Panamericana della Sanità, ufficio regionale dell’OMS: secondo questo studio, applicato a popolazioni di entrambi i sessi di sette città latinoamericane e di Madrid (Spagna), i livelli di violenza totale sono similari per entrambi i sessi, mentre i livelli di perpetrazione di violenza grave sono quasi tre volte superiori nelle donne.

Riguardo agli studi nazionali del modello unidirezionale realizzati in Europa, sono degni di nota la macro-inchiesta spagnola, applicata con metodologia e risultati simili in tre occasioni (1), e la francese (studio Enveff, applicato nel 2000), gemella della spagnola. La macro-inchiesta spagnola ha impressionato la società con la cifra magica (“due milioni di maltrattate”) ed ha catalizzato importanti misure legislative ed economiche volte a prevenire la violenza contro le donne, anche se – applicato ad un campione maschile equivalente – si sarebbe potuto determinare, con quasi totale certezza, l’esistenza simultanea di due milioni di uomini maltrattati. In Germania, l’indagine sulla “salute, benessere e sicurezza personale delle donne”, realizzata dal Ministero della Famiglia (BMFSFJ), è stata affiancata ad uno studio pilota [nº 94] applicato a 190 uomini. I risultati di questo sondaggio hanno dato la possibilità di constatare la bidirezionalità della violenza nella coppia.

Le istituzioni pubbliche hanno dunque il diritto di continuare a dedicare immense risorse in studi unidirezionali sulla “violenza contro le donne”, come si sta facendo da trenta anni ad oggi, quando tanti studi indipendenti hanno dimostrato abbondantemente la bidirezionalità, e persino la simmetria, della violenza in coppia? Hanno diritto le istituzioni di adoperare risorse pubbliche e nasconderci la metà del terreno di gioco? È efficace ed eticamente accettabile continuare ad applicare politiche di Genere basate su studi parziali ed incompleti, pur sapendo che l’effetto dimostrato di tali politiche è un aumento dei livelli di violenza?

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(1) La macro-inchiesta del marzo 2000 sulla “violenza contro le donne” ha permesso di determinare che in Spagna c’erano due milioni di maltrattate. Per ottenere questa cifra, si considerò “donna maltrattata” colei che rispondeva almeno una volta con le parole “frequentemente” o “a volte” ad una delle tredici domande seguenti, riguardanti il marito o compagno: 1) Le impedisce di vedere la famiglia o di avere relazioni con amici, vicini? 2) Le toglie i soldi che Lei guadagna, o non gliene dà a sufficienza rispetto a ciò di cui Lei ha bisogno per mantenersi? 3) La insulta o minaccia? 4) Decide le cose che Lei può o non può fare? 5) Insiste per avere rapporti sessuali, anche sapendo che Lei non ne ha voglia? 6) Non considera i Suoi bisogni (Le lascia il peggior posto di casa, la parte peggiore del pasto, …)? 7) in certe occasioni ha paura di lui? 8) Quando s’arrabbia, spinge o colpisce? 9) Le chiede dove vuole andare senza di lui (dato che non riesce a fare niente da sola)? 10) Le dice che le cose che Lei fa le fa male, che Lei è imbranata? 11) Ironizza o non considera le sue credenze (andare in chiesa, votare un partito politico, appartenere a qualche organizzazione)? 12) Non tiene in considerazione il lavoro che Lei svolge? 13) Davanti ai figli, dice cose che La mettono in imbarazzo? Nel 2002 e nel 2006, la macro-inchiesta si è applicata di nuovo con metodologia e risultati simili.

GLI STUDI DEL MODELLO BIDIREZIONALE

A) Studi longitudinali [nn. dall’1 al 15]

In termini di qualità, gli studi longitudinali – con le loro ripetute misurazioni delle variabili su uno stesso gruppo, lungo il tempo – sono gli strumenti più affidabili di valutazione della violenza nella coppia. Alcuni di questi studi hanno incominciato l’osservazione periodica degli individui che compongono il campione sin dalla prima infanzia. Forse lo studio Dunedin è il più conosciuto (nome della popolazione neozelandese dove si realizza), il cui campione si formò inizialmente con individui di tre anni d’età (nati tra il primo aprile del 1972 e il 31 di marzo dell’anno dopo), i quali sono stati oggetto di successive valutazioni mediche, psicologiche e sociologiche ogni due anni e – all’età di 21, 26 e 32 anni – hanno risposto anche a domande riguardanti la violenza nella coppia. [nn. 8 e 12]. In Nuova Zelanda si è realizzato anche lo studio Christchurch [n. 3], applicato ad un campione di 1.265 individui nati in questa città e nei dintorni nel 1977.

Anche se meno conosciuto del Dunedin, forse il più importante studio longitudinale è la National Youth Survey [Indagine Nazionale della Gioventù] degli Stati Uniti, chiamato così perché, quando ebbe avvio nel 1976, il campione iniziale – selezionato scientificamente per essere rappresentativo della popolazione nazionale – era composto da 1.725 adolescenti fra gli 11 e i 17 anni. Tre decenni più tardi, questi “adolescenti” rasentavano la cinquantina, ma l’indagine è ancora in corso; i dati raccolti nel laboratorio centrale dell’Università del Colorado sono adoperati già in più di un centinaio di studi su diverse materie (delinquenza, droghe, malattie, genetica, ecc.), compresa la violenza nella coppia [n. 13].

In questi studi longitudinali esistono, secondo quanto manifestano i ricercatori, connotazioni di responsabilità e fiducia, da parte dei partecipanti, che rendono le risposte più affidabili. Inoltre, gli studi longitudinali permettono di risolvere alcuni degli errori metodologici attribuiti a volte agli studi trasversali, che misurano la prevalenza del fenomeno della violenza in un momento specifico. Ad esempio, gli studi longitudinali “seguono” gli individui ovunque e in tutte le situazioni, al contrario degli studi trasversali, cui spesso si rimprovera che, applicati alla popolazione generica, non terrebbero conto in modo sufficientemente rappresentativo delle vittime della violenza domestica che in quel momento si trovassero ospiti nei centri antiviolenza. Inoltre, gli studi longitudinali permettono di tener conto di determinate circostanze, come ad esempio la dinamica di relazione o le risposte di autodifesa, vantaggio che li salvaguarda dalle critiche più frequenti ricevute dagli studi trasversali e dalle loro misurazioni isolate. D’altra parte, gli studi longitudinali non permettono alla persona soggetta all’indagine di cedere alla tentazione di idealizzare il passato per giustificare i comportamenti presenti, aspetto che, quasi sicuramente, spiega la differenza che si riscontra sistematicamente nei risultati delle indagini trasversali in funzione del periodo studiato.

Questo ultimo è un aspetto essenziale negli studi longitudinali, che mette in evidenza nuovamente come la procedura del sommare non è applicabile nell’ambito cronologico degli studi sulla violenza nella coppia. Come vedremo più avanti, dalle indagini trasversali relative a periodi lunghi o lontani nel tempo derivano, invariabilmente, risultati più asimmetrici ed una maggiore vittimizzazione delle donna, rispetto a quelle di orizzonte temporale più immediato (ultimi dodici mesi). Quando le domande di un’inchiesta si riferiscono ad atti violenti, concettualmente ben delimitati (colpire con un pugno, spingere, dare calci, ecc) e facili da ubicare nell’arco temporale (ad esempio, durante l’ultimo anno), i risultati sono generalmente simmetrici per entrambi i sessi. Invece, quando questo arco temporale si amplia (ad esempio, agli ultimi cinque anni o a tutta la vita adulta) o le domande sono più generiche, il tasso di vittimizzazione della donna aumenta, il che sembra attribuibile a motivi psicologici (ad esempio, la differente percezione delle relazioni precedenti tra uomini e donne) o ideologici (la generalizzata percezione sociale della donna come vittima potenziale dell’uomo).

Gli studi longitudinali sono la prova evidente di questa incongruenza metodologica. Prendiamo come esempio lo studio realizzato da Bárbara J. Morse [n. 13] con i dati della National Youth Survey [NYS] menzionata. Lo studio determina la violenza perpetrata in un arco di nove anni, ma misurato per periodi triennali. I risultati, con livelli molto superiori di violenza perpetrata dalle donne in tutti i tratti, contraddicono sostanzialmente quelli ottenuti mediante studi trasversali di cronologia più ampia (cinque anni o di più). Vuol dire che se invece dello studio longitudinale della NYS – con osservazione diretta di ognuno degli individui del campione ed osservazione triennale – fosse stato applicato allo stesso gruppo di individui un’unica indagine trasversale, relativa allo stesso periodo globale dei nove anni, i risultati sarebbero stati, con tutta probabilità, radicalmente diversi, e i tassi di vittimizzazione femminile avrebbero prevalso su quelle maschili. Lo studio di Morse, per le proprie caratteristiche di rappresentatività del campione e la metodologia generale della NYS, merita di essere tenuto specialmente in considerazione ed è uno dei più citati nelle bibliografie specializzate sulla violenza nella coppia; quasi tutti i restanti studi longitudinali compresi nella tabella comparativa corroborano i suoi risultati.

Anche lo studio di Timmons e O’Leary [nº 9], mostra un periodo d’osservazione eccezionalmente lungo: 10 anni. Nelle quattro consultazioni realizzate durante questo periodo, le donne (uniche dichiaranti) notificavano livelli di aggressione fisica e psicologica sempre superiori a quelli dei loro mariti. Gli autori concludono che è necessario prestare grande credibilità a queste dichiarazioni.

In alcuni degli studi longitudinali presentati nella tabella comparativa [n. 2, 5, 9 e 15] si procede all’osservazione delle coppie. In quasi tutti loro, i maggiori livelli di violenza si registrano nelle fasi iniziali del fidanzamento o prima del matrimonio. Questa violenza “mattiniera”, a cui segue il matrimonio o la consolidazione della relazione, sembra incompatibile con la teoria femminista che presenta la donna “intrappolata” nella situazione economica per spiegare la sua permanenza nel contesto delle relazioni violente.

b) Studi trasversali [n. 16 a 84]

La maggior parte degli studi raccolti nella tabella comparativa dell’Annesso sono di tipo trasversale, cioè misurano la prevalenza della violenza nella coppia in un momento specifico e in un certo universo statistico. L’affidabilità di qualsiasi studio di questo tipo dipende, soprattutto, dal campione utilizzato per realizzarlo. Se si tratta di un campione di selezione (ad esempio, donne rifugiate nei centri antiviolenza) o di autoselezione (ad esempio, volontari che rispondono ad annunci pubblici per la realizzazione dello studio), i loro risultati non saranno, di rigore, estendibili alla popolazione generale, e si può ipotizzare che gli studi che adoperano questa metodologia stanno cercando un risultato prestabilito. Invece, gli studi più affidabili utilizzano campioni non selettivi, scelti in maniera aleatoria o con criteri di rappresentatività tra la popolazione generale.

Vediamo un esempio. Lo strumento più utilizzato nella misurazione della violenza nella coppia sono le Scale di Tattiche di Conflitto [Conflict Tactics Scales o CTS] create da Murray A. Straus, Richard Gelles e Susan Steinmetz per effettuare la prima grande indagine nazionale sulla violenza domestica nel 1975 [n. 107]. Malgrado una nuova versione (CTS2), creata per una seconda indagine nazionale nel 1985 [n. 106], correggesse i difetti criticati nelle prime CTS, i detrattori di questo strumento di misurazione, per decenni, hanno cercato di delegittimarlo, insistendo su due difetti che erano stati prontamente corretti, e cioè: a) le CTS misurano solo gli atti violenti, ma non le conseguenze (lesioni e traumi psicologici); b) non valutano il contesto della violenza (ad esempio, se le aggressioni sono risposte di autodifesa). Entrambe le critiche mancano di fondamento e, dalla loro creazione, le CTS2 non hanno smesso di consolidarsi come strumento prediletto dei ricercatori.(2)

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(2) Le CTS2 constano di 39 domande distribuite in cinque sezioni (negazione, aggressione psicologica, aggressione fisica, coercizione sessuale e lesioni) e ordinate in funzione della gravità del maltrattamento. Le domande riguardanti il maltrattamento fisico sono 12: le prime cinque si considerano maltrattamenti lievi (da una spinta o una sberla fino al lanciare un oggetto con capacità di procurare danno), e le sette restanti considerano il maltrattamento grave (dal dare calci fino al fare uso di un coltello o un’arma). Le domande sulle lesioni sono sei, e comprendono dagli ematomi o distorsioni fino alla visita medica o le fratture ossee). (Consultato in: http://pubpages.unh.edu/~mas2/CTS15.pdf)

Tra i ricercatori che considerano incomplete le CTS2 per misurare la violenza nella coppia figurano Russell P. Dobash e Rebecca E. Dobash, dell’Università di Manchester, nel Regno Unito, è autore dello studio Women’s Violence to Men in Intimate Relationships: Working on a puzzle [nº 38]. Effettivamente, Dobash e Dobash realizzano un lavoro di indagine esaustivo e arrivano alla conclusione che la violenza nella coppia non è simmetrica, sono le donne a subirla con maggiore frequenza e in modo più grave. Per ottenere questi risultati, elaborarono questionari che permisero di esaminare in modo più approfondito il contesto e le conseguenze della violenza. Ad esempio, secondo loro, non è sufficiente chiedere ai soggetti se il loro partner aveva lanciato loro un oggetto, poiché non è uguale lanciare una lampada o un cuscino (3), né era lo stesso colpire scherzando o sul serio, anche se non sembrano accorgersi che tali interpretazioni erronee, se avvenissero, condizionerebbero nella stessa misura uomini e donne. Ad ogni caso, Dobash e Dobash, oltre a chiedere ai soggetti di indagine una serie di domande sugli “atti” violenti e sulle conseguenze (lesioni e traumi) simili a quelle utilizzate nelle CTS, ne pongono altre relative al contesto (come reagì, se lo prese sul serio, lo prese in giro, ecc). Effettivamente, lo studio è esaustivo, ma possiede un piccolo inconveniente: il campione consiste in 95 coppie …nelle quali il marito è stato condannato dai tribunali come autore di maltrattamenti! Cioè, si tratta di un campione giudiziario probabilmente rappresentativo dell’universo statistico dei rei autori di maltrattamenti, ma in nessun caso della popolazione generale. È come fare una ricerca sull’incidenza del cancro andando in un padiglione di malati di cancro, per dopo estendere i risultati a tutta la popolazione.

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(3) I ricercatori in realtà non argomentano ma, detto colloquialmente, “la rigirano”. I ricercatori ignorano il fatto che nelle CTS2 la domanda pertinente (nº 7) è: “Ho lanciato al mio partner un oggetto capace di provocare danno (di ferire)” (“Threw something at my partner that could hurt“)

In genere, gli studi che si allontano di più dalle costanti di bidirezionalità e simmetria nella violenza di coppia sono inficiati da uno di questi due difetti o da entrambi: o i periodi di tempo compresi sono eccessivamente vasti (con le conseguenze che abbiamo esposto precedentemente), o utilizzano campioni selezionati (come il menzionato Dobash e Dobash o altri basati su gruppi clinici, di terapia coniugale, di riabilitazione di autori di maltrattamenti o simili). Nella tabella annessa sono compresi sei studi realizzati sul personale militare [n. 4, 24, 25, 44, 58 e 70]. Senza dubbio, questi studi sono realizzati co dovuto rigore scientifico, e i loro risultati sono perfettamente validi per la popolazione militare, ma non possiamo pretendere che lo siano altrettanto per la popolazione generale. Lo stesso si può dire dello studio di Mouzos e Smith [nº 18], realizzato su un campione di detenuti nei commissariati australiani. È necessario chiarire che anche le indagini applicate alle popolazioni giovanili (ad esempio, studenti universitari) registrano tassi più alti di violenza di quelli applicati a popolazioni di età più avanzate; inoltre, questi tassi di violenza, e in modo particolare di iniziazione delle aggressioni, sono spesso superiori nelle donne [si veda, ad esempio, n. 19, 20, 28, 48, 50, 53 e 78]. Invece, gli studi sulle popolazioni più adulte offrono minori livelli di violenza e risultati più simmetrici per entrambi i sessi [ad esempio n. 32, 34, 56, 59, 64, 66 e 81].

C) Inchieste nazionali [n. 85 a 107]

In genere, le inchieste nazionali applicate regolarmente in paesi come gli Stati Uniti, il Canada o il Regno Unito hanno il vantaggio di utilizzare dei campioni di grandi dimensioni; l’inconveniente è che non sono state concepite per misurare specificamente la violenza nella coppia, né utilizzano una metodologia ottimizzata per studiare questo tipo di violenza, ma per la misurazione di tanti altri aspetti. Ad esempio, il questionario della British Crime Survey (versione del 2002) consta di 228 pagine di domande che permettono di ottenere informazioni molto diverse su tanti tipi di comportamenti delittuosi, e tra questi, la violenza di coppia percepita come delittuosa. Questo è un altro aspetto molto importante delle “crime surveys” o inchieste di prevenzione del delitto: i soggetti dell’inchiesta rispondono ad una enorme batteria di domande su ogni tipo di comportamento delittuoso sperimentato nel proprio entourage (da furti con scasso fino a espressioni di razzismo), compresi gli atti di violenza domestica percepiti come delitti. Evidentemente, questa percezione della violenza nella coppia – nei suoi diversi livelli di gravità – come attività delittuosa, è molto condizionata dall’entourage ideologico e mediatico predominante.

Riguardo questo aspetto, il ricercatore canadese Denis Laroche (4) ci ricorda una curiosa esperienza occorsa in uno dei contesti del sopraccitato “studio Dunedin”. Nell’indagine dei componenti del campione rappresentativo in merito alla violenza sorta come risposta a conflitti di famiglia (family conflict study), gli uomini segnalavano tassi di vittimizzazione più elevati delle donne (34,1% vs. 27,1%); quando agli stessi partecipanti venne chiesto, nella stessa giornata, se la loro esperienza di violenza nella coppia fosse percepita come delitto (crime survey), gli uomini dichiararono tassi di vittimizzazione molto inferiori rispetto alle donne (2,7% vs. 11,3%). Un altro esempio lo offre la British Crime Survey del 2001 [nº 92], nella quale la percezione degli atti di violenza domestica come “delitti” è sei volte superiore nelle donne (quadro 3.8, pagina 46). Riguardo l’affidabilità di queste inchieste, Murray A. Straus ha dimostrato che i livelli di maltrattamento dichiarati nelle indagini sulla violenza domestica sono 16 volte superiori a quelli dichiarati nelle crime surveys. (5)

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(4) Laroche, D.: Prévalence et conséquences de la violence conjugale envers les hommes et les femmes, Institut de la statistique du Québec, 2005.

(5) Murray A. Straus: The controversy over domestic violence by women: a methodological, theoretical, and sociology of science analysis (citato da Donald G. Dutton e Tonia L. Nicholls in The gender paradigm in domestic violence research and theory: Part I – The conflict of theory and data, Aggression and Violent Behaviour, 10 (2005), 680-714.

Dall’altra parte, questi tipi di indagini non sembrano rispecchiare con precisione i livelli delle lesioni. Nella General Social Survey on Victimization del 1999 [n. 95], su un periodo di cinque anni, la percentuale di lesioni dichiarata dalle donne è quasi doppia della media delle percentuali di atti violenti suscettibili di causarle (6). Nell’edizione del 2004 di questa stessa inchiesta [nº 87], i livelli di lesioni dichiarati dalle donne duplica abbondantemente quelli notificati dagli uomini, ma non sembrano compatibili dopo la suddivisione per tipo di lesioni (pag. 17 dell’edizione in inglese) (7) poiché il risultato predominante nelle donne rispetto agli uomini sono gli ematomi (96% vs. 82%), mentre i tagli sono un risultato che predomina negli uomini rispetto alle donne (56% vs. 35%), ed entrambi i tipi di lesioni costituiscono l’immensa maggioranza delle lesioni (il resto delle lesioni arrivano appena all’8%, come media).

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(6) Nel gruppo di vittime, la percentuale di donne dichiaranti forme di maltrattamento ritenute gravi è del 22,8%, mentre la percentuale di lesioni dichiarate è del 40: bisogna perciò dedurre che anche le forme di maltrattamento lieve hanno causato delle lesioni o che le dichiarazioni delle donne sono condizionate da fattori metodologici o ideologici. I dati derivano dai quadri 2.1 e 2.5 dalla relazione ufficiale sull’inchiesta (Family Violence in Canada: A Statistical Profile 2000 (Statistics Canada, catalogue nº 85-224-XIE)), anche se per motivi di formato e d’esaustività abbiamo preferito utilizzare per la tabella lo studio realizzato da Denis Laroche [nº 95] che ugualmente riportano i dati dell’inchiesta.

(7) Family Violence in Canada: A Statistical Profile 2005 (Canadian Centre for Justice Statistics). Come nella versione del 1999 di questa indagine, cui si riferisce la nota 5, ed anche per ragioni di formato ed esaustività, abbiamo preferito utilizzare per la nostra tabella comparativa lo studio realizzato da Denis Laroche [nº 87] con i dati della stessa indagine.

Un’altra considerazione importante, valida per tutti i tipi di studi, è il periodo che questi questionari comprendono. In genere, i questionari relativi a grandi periodi di tempo mostrano dei risultati di maggiore vittimizzazione della donna, mentre i questionari relativi agli ultimi dodici mesi offrono livelli similari di violenza per entrambi i sessi. Poiché le due cose non possono essere entrambe vere – perché ciò vorrebbe dire che il tutto non è uguale alla somma delle parti – è d’obbligo trovare una spiegazione al fenomeno, che probabilmente risiede di nuovo nel condizionamento ideologico e mediatico. Ad esempio, gli studi di L. D. Brush [nº 104] e J. Bookwala [nº 91], basati su due edizioni della stessa inchiesta – rispettivamente, la National Survey of Families and Households del 1988 e del 1996 – arrivano a conclusioni sostanzialmente diverse riguardo al livello di lesioni. Lo studio di Brush si riferisce alla violenza nella coppia comprendente l’arco di tempo di tutta la vita adulta; mentre lo studio di Bookwala riguarda gli ultimi dodici mesi. Il risultato nello studio di Brush sono delle percentuali similari di violenza per entrambi i sessi, e percentuali maggiori di lesioni nelle donne (2,5%) rispetto agli uomini (1%); invece, nello studio di Bookwala i livelli generale di perpetrazione di violenza sono superiori per le donne e per tutti i tratti di età, mentre l’incidenza di lesioni è più equilibrata. Un altro esempio interessante è quello della National Violence against Women Survey 1995-1996 [nº 99], dove è evidente la differenza di livelli di vittimizzazione dichiarati, fra quelli riferiti all’ultimo anno (praticamente, senza rilevanza statistica) ed i corrispettivi riferiti a tutta la vita (tre volte superiori nelle donne). Si è rilevato anche come le donne tendano ad attribuire, forse per identici motivi ideologici e di clima sociale, maggiori livelli di violenza ai partner precedenti rispetto agli uomini: ciò provoca l’effetto di gonfiare le loro cifre di vittimizzazione negli studi di lungo periodo.

Infine, è probabile che la componente politica sia presente nel disegno di alcune delle grandi inchieste governative, data l’ossessione dei governi di sintonizzarsi con l’ideologia predominante del loro elettorato e sottomettersi al “politicamente corretto”. Forse anche per questo si spiega la tendenza degli studi governativi ad includere nella definizione di violenza nella coppia determinati comportamenti sociali di cui sono vittime più frequentemente le donne (come le molestie sessuali), o far contemplare periodi lunghi o richiedere specificamente [il focus su] il maltrattamento perpetrato dai loro ex partner. Ad esempio, nella sopraccitata NVAW- 1995/1996 [nº 99] si adotta una definizione molto ampia di maltrattamento e s’insiste reiteratamente su tutti i tipi di maltrattamenti riguardanti la donna (molestie, stupro, ecc), in periodi che comprendono tutta la vita; mentre appena si accenna al maltrattamento sull’uomo; non si specificano nemmeno atti suddivisi in funzione della loro gravità durante l’ultimo anno. Un altro esempio ce lo offre l’inchiesta dei Paesi Bassi del 1998 [n. 102], nella quale si adotta una definizione di violenza che comprende gli effetti psicologici duraturi e, di conseguenza, si subordinano i risultati al contesto ideologico predominante di vittimizzazione della donna.

Malgrado questi inconvenienti, i dati delle grande inchieste nazionali rispecchiano livelli di conflittualità assai simili per entrambi i sessi, come si può constatare nella sezione corrispondente della tabella comparativa [n. 85 a 107]. Come si è già segnalato, le crime surveys [n. 85, 86, 87, 89, 90, 92, ecc] e le inchieste che comprendono lunghi periodi di tempo [n. 87, 90, 95, 99, ecc] presentano di solito una minore simmetria di risultati e una maggiore vittimizzazione delle donne. Analogamente, le inchieste orientate ad indagare le condotte di giovani adulti [n. 88, 93, 96 e 100] offrono livelli di perpetrazione della violenza di coppia molto simili per entrambi i sessi, in contrasto con le inchieste specifiche sulla violenza nelle coppie giovanissime, i cui livelli di perpetrazione sono – come abbiamo già visto nelle sezioni precedenti – superiori nelle ragazze. Lo stesso succede per gli studi più vecchi di questo tratto della tabella [n. 105 a 107], disegnati specificamente per misurare la violenza domestica, e che offrono livelli similari di violenza per entrambi i sessi, o una maggiore vittimizzazione dell’uomo, persino per violenza grave.

d) Metanalisi [n. 108 a 111]

Infine, abbiamo incluso quattro metanalisi o “studi di studi”. Quello di B. Krahe ed altri [n. 108] esamina 32 studi di 21 paesi, esclusi gli Stati Uniti, ed è un tentativo di offrire una panoramica generale sulla violenza di coppia nel resto del mondo, molto meno studiata che in quel paese. Quello di El de K. McKeown e Ph. Kidd [n. 109] si limita a 13 studi, ma la sua analisi è molto più circostanziata. Entrambi arrivano alla stessa conclusione: la prevalenza della violenza nella coppia, sia lieve che grave, è simile per entrambi i sessi.

La grande metanalisi di studi sulla violenza di coppia è quella pubblicata nel 2000 dal professore John Archer, dell’Università di Lancashire Centrale (Regno Unito) [n. 111]. Questo esamina i risultati di 82 studi indipendenti, il cui campione congiunto raggiunge la cifra di 64.487 individui. Secondo i dati combinati di questi studi, le donne sono più propense degli uomini ad esercitare il maltrattamento fisico contro il proprio partner, anche se hanno una probabilità leggermente superiore di subire lesioni. L’autore riassume così le proprie conclusioni:

Quando si misurano gli atti specifici, le probabilità di aggredire fisicamente i propri partner, e di farlo più frequentemente, sono significativamente maggiori tra le donne che tra gli uomini, anche se la grandezza dell’effetto è più piccola (d =-.05). Quando si misurano le conseguenze fisiche delle aggressioni (lesioni apprezzabili o lesioni che richiedano attenzione medica), le probabilità di causare lesioni ai loro partner sono maggiori negli uomini che nelle donne, ma, nuovamente, le grandezze dell’effetto sono relativamente piccole (d =.15 e .08).

Donald G. Dutton conclude, in relazione a questo studio: “Data la metodologia utilizzata da Archer, il suo studio può considerarsi il “gold standard” degli studi sulla violenza di genere”.

J. Archer integrò lo studio precedente con un’analisi più specifica degli atti di violenza, pubblicato nel 2002 [nº 110]. In questa seconda metanalisi si studia la distribuzione per sessi degli atti di aggressione fisica registrati in 58 studi e suddivisi in nove categorie (metodo CTS): lanciare oggetti – spingere o afferrare – schiaffeggiare – dare calci, morsi o pugni – colpire con oggetti – colpire reiteratamente – annegare – minacciare con coltello o pistola – attaccare con coltello o pistola. Secondo le conclusioni di questo minuzioso e complesso lavoro, le donne sono più propense degli uomini a lanciare oggetti, schiaffeggiare, dare calci, morsi o pugni, e colpire con oggetti (in una percentuale globale del 58,4%). Invece, gli atti di “colpire reiteratamente” o “annegare” sono perpetrati in maggiore percentuale da uomini (61,5% e 69,5%, rispettivamente). Riguardo ai due atti restanti, le percentuali sono simili: “minacciare con coltello o pistola” è perpetrato nel 55% dei casi dalle donne, e “attaccare con coltello o pistola” è perpetrato nel 52,2% dei casi dagli uomini. (Medie ottenute dal quadro 5 dello studio, pag. 332).

ALTRE CONSIDERAZIONI

Il paradigma di genere e la non-violenza di genere

In un esaustivo articolo sulle indagini degli ultimi decenni in materia di violenza domestica (8), i professori Dutton e Nicholls, dell’Università della Columbia Britannica (Canada) con l’espressione “paradigma di genere” intendono un insieme di postulati fondamentali o una cosmovisione condivisa da un gruppo, e che serve a negare qualsiasi validità ai dati che siano divergenti dalle teorie centrali del paradigma. Secondo questi postulati – basati sulla concezione neomarxista secondo cui l’uomo agisce nella coppia da borghese e la donna da proletaria – tutta la violenza domestica si riassume in queste due modalità basiche: a) abuso fisico maschile per mantenere le prerogative del potere, o b) violenza difensiva femminile, utilizzata per proteggersi.

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(8) Donald G. Dutton e Tonia L. Nicholls: The gender paradigm in domestic violence research and theory: Part I – The conflict of theory and data, Aggression and Violent Behaviour, 10 (2005), 680-714.

L’articolo di Dutton e Nicholls è un dettagliato ripasso delle inchieste sulla violenza domestica, che mette in evidenza le contraddizioni esistenti fra la teoria di quel paradigma e i dati della realtà, ratificati da più di duecento studi (Dutton e Nicholls stimano in 159, come minimo, quelli realizzati negli Stati Uniti fino la data della pubblicazione del lavoro) Pagina dopo pagina, Dutton e Nicholls, snocciolano le conclusioni di molti di questi studi, che contraddicono i postulati essenziali del paradigma di genere: ad esempio, la falsità della tesi che sostiene che la violenza femminile sia meramente difensiva, poiché sono molti i lavori empirici che dimostrano che la violenza unidirezionale femminile è più frequente di quella maschile (ciò che spiegherebbe il fatto che il tasso di maltrattamento nelle coppie lesbiche sia più alto che nelle coppie eterosessuali); la tendenza degli studi femministi ad esendere alla popolazione generale i risultati ottenuti con campioni di “selezione”; i maggiori livelli di iniziazione delle aggressioni nelle donne, accreditati da numerosi studi e, malgrado ciò, l’ostinazione di alcuni autori ad insistere nel carattere esclusivamente difensivo della violenza femminile; o i dati di un grande numero di studi che segnalano tendenze più vittimistiche nella donna che nell’uomo nell’occasione di dichiarare la violenza subita o di denunciarla (poiché, socialmente, si presuppone che il problema sia quello della violenza contro la donna, non il contrario).

La domanda che gli autori si pongono alla fine del loro lavoro è la seguente: perché gli studi ufficiali arrivano sistematicamente alla conclusione che le donne perpetrano meno violenza e subiscono più lesioni, mentre gli studi indipendenti constatano che le donne esercitano più violenza e subiscono un livello di lesioni solo leggermente superiore? E concludono che “forse le entità ufficiali, in maggior misura che i ricercatori indipendenti, organizzano ed interpretano le loro inchieste in maniera affine ai postulati femministi”.

D’altra parte, secondo Richard B. Felson – professore dell’Università dello Stato della Pensilvania – mentre, a livello generale, gli uomini commettono atti di violenza in una percentuale otto volte superiore alle donne, a livello di coppia esiste parità nella perpetrazione di violenza, il che manifesta la minore probabilità che gli uomini esercitino violenza sulle loro partner a causa della “norma di cavalleria” (chivalry norm) (9). Esattamente il contrario succede con le donne, che commettono una violenza percentualmente molto più alta in seno alla coppia che non al di fuori di essa. Cioè, l’uomo è più propenso ad esercitare la violenza contro gli altri uomini che non contro le donne; e le donne sono più propense ad esercitare la violenza contro gli uomini che non contro altre donne. Questo ci permetterebbe di concludere che, se vi dev’essere qualcosa che si possa chiamare “violenza di genere”, quest’espressione si attaglierebbe di più alla violenza esercitata dalla donna sull’uomo, piuttosto che il contrario. Analogamente, il fatto che, sotto le stesse condizioni (ad esempio, in una disputa di circolazione stradale), l’uomo possa esercitare la violenza contro gli uomini più facilmente che contro le donne, ci permetterebbe di poter affermare che la caratteristica genuina del comportamento maschile è la “non-violenza di genere”.

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(9) Richard B. Felson: Is violence against women about women or about violence?, Contexts, 5, págs. 21-25, 2006

Nello studio pubblicato da M.J. George nel 1999 [nº 61] si quantifica la violenza globale esercitata da donne su persone di entrambi i sessi, in qualsiasi contesto, durante gli ultimi cinque anni. Non è perciò uno studio sulla violenza nella coppia, ma sulla violenza femminile in genere, basato su un campione rappresentativo della popolazione adulta del Regno Unito. Secondo i risultati, gli uomini hanno dichiarato di essere stati vittime con livelli superiori (esattamente il doppio) e in forme più gravi (nella percentuale di 4 a 1) di violenza rispetto alle donne. Il 53% delle aggressioni ricevute dagli uomini procedevano dal partner o dal ex-partner, mentre solo il 26% procedeva da estranei. Questi risultati inficiano due dei principali postulati del paradigma di genere: a) che il focolare sia il luogo dove le donne subiscono più aggressioni, poiché è anche il luogo dove gli uomini subiscono più aggressioni; e b) nuovamente, il concetto di “violenza di genere”, poiché è molto più probabile che le donne aggrediscano più gli uomini, sapendosi protette dalla norma di cavalleria, che altre donne, dalle quali si possono attendere una risposta più contundente.

Infine, ricordiamo anche – a smentita del postulato di base del paradigma di genere, secondo il quale la violenza nella coppia è perpetrata in maggioranza dall’uomo per assicurare il suo dominio sulla donna – che sono molti gli studi che dimostrano che le maggiori percentuali di violenza si producono nelle coppie omosessuali. A titolo di esempio, citiamo nuovamente le conclusioni dell’Inchiesta Sociale Generale 2004 del Canada [nº 87], dove si afferma che “il tasso di violenza coniugale tra omosessuali è stato il doppio di quello dichiarato tra eterosessuali (15% vs. 7%)”. (10) In modo analogo, nella National Violence against Women Survey 1995/1996 [nº 99] si registrano livelli di violenza di coppia significativamente maggiori nelle coppie dello stesso sesso. Nel caso delle donne, i livelli di vittimizzazione in coppie omosessuali furono del 39,2% (in confronto al 21,7% nelle donne eterosessuali); nel caso degli uomini, le cifre comparabili furono del 23,1% (omosessuali) e del 7,4% (eterosessuali). Per le donne, i tassi di stupro nelle coppie lesbiche (11,4%) furono anche molto superiori ai tassi di stupro nelle coppie eterosessuali (4,4%).

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(10) Family Violence in Canada: A Statistical Profile 2005 (Canadian Centre for Justice Statistics), pagina 19.

Iniziazione di aggressioni e violenza difensiva

Uno degli argomenti più tenacemente utilizzati dagli autori femministi per far ricadere sull’uomo la responsabilità ultima di tutta la violenza nella coppia è stato il presunto carattere difensivo o preventivo (11) della violenza femminile. Tuttavia, in tutti gli studi della tabella comparativa dell’Annesso dove si analizzano i livelli di violenza non reciproca e iniziazione delle aggressioni fisiche si constatano tassi di violenza unilaterali e iniziazione delle aggressioni similari per entrambi i sessi o superiori nelle donne nelle coppie adulte, mentre nelle coppie giovani entrambi i comportamenti sono più frequenti nelle donne che negli uomini. Vediamo qualche esempio.

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(11) Il concetto di violenza preventiva è aberrante in uno Stato di diritto, ma nel contesto della violenza domestica si è utilizzato come circostanza liberatoria o attenuante della responsabilità penale o giustificante dell’indulto in numerosi casi di comportamenti delittuosi, compresi omicidi.

  • In Whitaker (2007) [n. 1], i livelli di perpetrazione non reciproca sono molto più elevati nelle donne (70,7%) che negli uomini (29,3%) (quadro 2).
  • In Capaldi (2007) [n. 2], i livelli di iniziazione delle aggressioni sono quattro volte più elevati nelle donne verso la fine dell’adolescenza (46% vs. 10%) e discendono gradualmente fino raggiungere percentuali più equilibrate (11% vs. 8%) verso i 26 anni di età.
  • In Strauss (2006) [n. 20], i tassi globali di violenza unilaterale sono il doppio nelle donne (21,4%) che negli uomini (9,9%), proporzione che si mantiene nel sottocampione di perpetratori di violenza grave (29,4% vs. 15,7%); e le aggressioni di donne sono prevalentemente di dominio e controllo, non di autodifesa.
  • In Fergusson (2005) [n. 3] è il gruppo degli uomini che dichiara maggiori livelli di violenza di autodifesa in risposta ad aggressioni iniziate dalle loro partner. Le medie incrociate di iniziazione delle aggressioni sono del 46% per le donne e del 22% per gli uomini.
  • In Harned (2001) [n. 50] si registrano livelli di autodifesa più elevati negli uomini (56%) che nelle donne (42%) (quadro 4)
  • In Kessler 2001 [n. 98], gli uomini e le donne concordano nell’attribuire maggiori livelli di violenza unilaterale alle donne, tanto lieve quanto grave (quadro 3).
  • In Kwong (1999) [n. 56], le medie incrociate di violenza perpetrata unilateralmente sono del 26,5% per le donne e del 16,5% per gli uomini; e quelle di iniziazione della violenza fisica, sono del 52% per le donne e del 38% per gli uomini (dichiarandosi simultaneo il 10% restante) (pag. 155).
  • In Foshee (1996) [n. 72] la violenza considerata di autodifesa è esclusa espressamente dalle risposte, il che non toglie che i tassi di violenza, lesioni e attenzione medica siano simili per entrambi i sessi.
  • In Carrado (1996) [n. 75] si registrano livelli simili di iniziazione di conflitti per entrambi i sessi.
  • In Morse(1995) [n. 13], i tassi di violenza perpetrata unilateralmente sono, in media, del 32,9% nelle donne, e del 11,8% negli uomini (quadro 4). Riguardo l’iniziazione delle aggressioni fisiche, le risposte incrociate di entrambi i sessi indicano che le donne furono le prime a ricorrere alla forza fisica nel 57,8% dei casi, e gli uomini nel 42,2% dei casi (quadro 5).
  • Nel suo studio del 1994 [n. 14], Reena Sommer constata livelli di difesa più elevati nei maschi (15%) che nelle donne (10%).
  • In Brinkerhoff (1988) [n. 81], il tasso di violenza non reciproca è più alto nella donna (13,2%) che nell’uomo (10,3%).
  • In Henton (1982) [n. 84], i tassi di violenza non reciproca sono uguali.
  • Nella 1985 NFVS [nº 106], la violenza è stata reciproca nel 49% dei casi, esclusivamente maschile nel 23% dei casi, ed esclusivamente femminile nel 28% dei casi. Riguardo all’iniziazione della violenza fisica, gli uomini hanno dichiarato di aver dato il primo colpo nel 43,7% dei casi, e la loro compagna nel 44,1% dei casi; e le donne hanno dichiarato di aver dato il primo colpo nel 52,7% dei casi e il loro compagno nel 42,6% dei casi. (12)
  • In Archer (2000) [nº 111] si menzionano altri sei studi (dei seguenti autori: Bland e Orn (1986); De Maris (1992); Gryl e Bird (1989); Straus (1997); Brush (1990); e Straus e Gelles (1988)) nei quali si constatano livelli superiori o similari di iniziazione di conflitti e violenza non reciproca nelle donne (pagina 664).
  • In altri studi non compresi nell’annesso – sia perché basati su campioni esclusivamente femminili, sia per motivi di economia – si constatano livelli simili o superiori di iniziazione di conflitti nelle donne.(13)

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(12) J.E. Stets e M.A. Straus, Gender Differences in Reporting Marital Violence a Its Medical and Psychological Consequences, capitolo 9 del libro Physical Violence in American Families, di M.A. Straus e R. Gelles, pag. 154-155.

(13) Secondo W.S. DeKeseredy e M.D. Schwartz (Woman Abuse on Campus: Results from the Canadian National Survey, Sage Publications, 1998), il 62,3% delle donne dicono che le loro aggressioni non sono state mai di autodifesa, rispetto al 6,9% che afferma il contrario; trattandosi della perpetrazione di violenza grave, queste percentuali sono, rispettivamente, del 56,5% e del 8,5%) (Citato da Gender Differences in Patterns of Relationship Violence in Alberta (Marilyn I. Kwong, Kim Bartholomew e Donald G. Dutton)[nº 56]). In uno studio di S.C. Swan e D.L. Snow (Behavioural and psychological differences among women who use violence in intimate relationships, 2003), applicato ad un campione di donne, l’83% delle donne hanno dichiarato di essere state le iniziatrici delle aggressioni. (Citato in Observed Initiation and Reciprocity of Physical Aggression in Young, At-Risk Couples (D.M. Capaldi, H.K. Kim e J.W. Shortt, [nº 2])). In Aggression in adolescent dating relationships: prevalence, justification, and health consequences (M.J. Muñoz-Rivas, J.L. Graña, K.D. O’Leary e M.P. Gonzalez, 2007) si constatano livelli più elevati di aggressione di risposta negli uomini (13% vs. 6,6%). Murray Strauss (Dominance and Symmetry in Partner Violence by Male and Female University Students in 32 Nations [nº 20]) menziona cinque studi (Carrado, Cascardi, Felson, Follingstad e Sarantakos) che offrono percentuali molto basse di violenza da autodifesa e percentuali simili per uomini e per donne.

Quindi, la giustificazione della violenza femminile nella coppia come una mera risorsa difensiva non sembra essere avallata dai dati oggettivi, ma piuttosto da ipotesi ideologiche stabilite a priori. Invece, esistono dati a sufficienza per avallare l’ipotesi contraria, cioè, che il tasso d’iniziazione delle aggressioni e di perpetrazioni non reciproche è più elevato o simile fra le donne.

Lesioni

Nell’insieme, le donne subiscono più lesioni degli uomini come conseguenza della violenza nella coppia, anche se le percentuali non sono così soverchianti come di solito si crede. Dei 18 studi dell’Annesso che registrano percentuali di lesioni, solo la metà [nn. 1, 17, 48, 51, 72, 87, 92, 95 e 104] offre differenze significative; il resto offre livelli molto simili per entrambi i sessi, o addirittura leggermente superiori [nn. 32, 57] sugli uomini.

Gli studi ospedalieri sulle donne vittime di violenza domestica sono tanto frequenti quanto scarsi sono quelli dedicati agli uomini. Tra questi ultimi figura un eccezionale lavoro, realizzato in un dispensario di urgenze di Filadelfia (USA), secondo il quale, il 12,6% degli 866 uomini trattati dai loro servizi in un periodo di 13 settimane erano stati vittime di violenza domestica. Gli autori dello studio citano i risultati di altri lavori simili su pazienti femmine, secondo i quali il 14,4% delle donne trattate nei reparti d’urgenza sono vittime di maltrattamenti o di abusi sessuali subiti dai loro partner.(14)

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(14) Mechem, C. C., Shofer, F. S., Reinhard, S. S., Hornig, S., e Datner, E. (1999). History of domestic violence among male patients presenting to an urban emergency department. Academic Emergency Medicine, 6, 786-791.

Se facciamo un computo globale di tutte le percentuali dell’annesso relativo alle lesioni, cioè una somma “lorda” di tutte le cifre precedute del simbolo ◊, il risultato è che la cifra globale di lesioni causate dalle donne (331) equivale al 75% della cifra globale di lesioni causate dagli uomini (456); come è risaputo – e può essere facilmente corroborato in numerosi studi pubblicati in internet – la massa corporea della donna equivale, in media, al 75% della massa corporea dell’uomo. Forse questa parità di percentuali per entrambi gli elementi (massa corporea e lesioni) basta a spiegare la più alta incidenza di lesioni causate dall’uomo, senza necessità di ricorrere alle abituali formulazioni ideologiche.

Maltrattamenti psichici

Nella tabella comparativa sono stati presentati, in genere, i dati sulla violenza fisica, e sono stati omessi quelli relativi al maltrattamento psichico, salvo nei casi in cui gli studi originali non hanno specificatamente scisso tali dati. Fatta riserva di una stima più rigorosa, e giudicando a grande linee i risultati degli studi consultati, è assai probabile che la distribuzione del maltrattamento psichico per sessi corrisponda parecchio a quella del maltrattamento fisico. Ma gli strumenti di misurazione che di solito si adoperano (15), la soggettività della percezione di questo tipo di maltrattamento (non è lo stesso ricordare e notificare con precisione due calci e tre morsi o due commenti ironici e tre risposte grossolane) e la tendenza dei questionari a ritenere maltrattamento psichico quasi tutto ciò che risulta antipatico all’altro membro della coppia – dalle critiche alla gelosia o alle minacce di rottura della relazione – rendono rischioso un trattamento paritetico di entrambi i tipi di maltrattamenti.

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(15) Ad esempio, le CTS2 stabiliscono una gerarchia di maltrattamento psichico che va dall’“insultare” o “gridare” contro l’altro membro della coppia, fino al minacciare di “colpirlo/a”, passando per chiamarlo “grosso/a o brutto/a” o accusarlo di essere un “pessimo amante”.

Invece, di solito nessun studio tiene in considerazione le forme più profonde di maltrattamento psichico che si infliggono ai maschi nei contesti di separazione della coppia: l’espulsione di casa e dalla vita dei loro figli, la spoliazione affettiva ed economica o la soppressione del diritto alla presunzione d’innocenza di fronte a denunce false, ordite contro di loro come strategia di divorzio. Più che maltrattamenti psichici, tali misure costituiscono autentiche violazioni dei diritti umani, e risulta ridicolo e difficile capire come certi atti – quali sbattere una porta o dare un calcio ad un mobile – possano costituire atti di maltrattamenti in confronto ai primi. Eppure, questi secondi comportamenti si includono sistematicamente in tutti i questionari sul maltrattamento psichico, mentre la violazione dei diritti umani nei casi di separazione e divorzio non entra mai nel computo.

Senza arrivare addirittura a tali estremi, ci si può domandare se altri comportamenti della vita di coppia, come l’infedeltà o l’inganno, siano forme di maltrattamento psichico: o se lo sia la confidenza o l’indiscrezione, che rendono pubblici aspetti intimi della coppia, ad esempio, la propria infedeltà. Non sono forse gli effetti di tali comportamenti tanto o più negativi di quelli del maltrattamento psichico riconosciuto dagli specialisti? Che criterio deve applicarsi, allora, per definire cos’è il maltrattamento psichico? È maltrattamento psichico l’ironizzare sulle idee politiche del tuo partner e non lo è il raccontare alle tue amiche che il tuo marito è cornuto o impotente? È maltrattamento psichico la gelosia e non lo è la frode di paternità, che da un esaustivo studio – forse il più completo realizzato finora [2007] – fissa una percentuale non inferiore al 4% per la popolazione generale, (16) e che sale fino al 30% nei casi indagati ad istanza della parte?(17)

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(16) Bellis, M. A, Hughes, K., Hughes, S., Ashton, J. R (2005). Measuring paternal discrepancy and its public health consequences. Journal of Epidemiology and Community Health 2005; 59:749-754. Nel loro studio Bellis et al. abbassano la cifra del 10% di false paternità, frequentemente utilizzata in articoli di divulgazione, fino al 3,7 %, ed avvertono che, sebbene questa percentuale proveniente da campioni clinici non sia estendibile alla popolazione generale, permette di concludere che la “popolare” cifra del 10% è esagerata. Malgrado tutto ciò, se si confrontano con le cifre di maltrattamento psichico grave (quasi mai superiori al 6%) degli studi realizzati su campioni rappresentativi della popolazione adulta, la media del 3,7% stabilita da M.A. Bellis per questa forma estrema di maltrattamento psichico (senza dubbio, più traumatica per l’interessato che un calcio nello stinco o un morso in un braccio) non è una cifra trascurabile.

(17) Dati dell’Associazione di Donatori di Sangue degli Stati Uniti (American Association of Blood Banks) (consultati in: http://www.aabb.org/Content/Accreditation/Parentage_Testing_Accreditation_Program/ptprog.htm) ed anche di altri studi menzionati in quello di M.A. Bellis ( si veda la precedente nota n. 16)

RIASSUNTO QUANTITATIVO

TASSI GLOBALI DI VITTIMIZZAZIONE

Nel quadro seguente si presentano le medie globali di vittimizzazione ottenute dai dati della tabella dell’Annesso. Anche se non hanno il rigore statistico delle metanalisi specializzate, possono risultare orientativi e fornire un’idea globale della realtà della violenza nella coppia. Come si può notare, i maggiori tassi di vittimizzazione maschile sono quelli registrati dagli studi longitudinali, di norma i più affidabili, anche se non rappresentativi della popolazione generale: ciò è dovuto al fatto che i campioni sono formati prevalentemente da giovani. Invece, i tassi di vittimizzazione femminile sono leggermente superiori nelle grandi inchieste nazionali, anche se sappiamo che, per la metodologia utilizzata, sono meno affidabili e specializzate. Il computo globale offre medie di vittimizzazione inferiori nelle donne rispetto agli uomini, tanto nella violenza totale (17,3% vs. 19,9%) quanto nella violenza grave (6,1% vs. 8,6%).

n.a. Non applicabile

Nota: Per motivi di omogeneità, sono stati esclusi i dati relativi al sottocampione del gruppo di vittime, cioè quelli che sono segnati con la lettere “a” nel superindice (ad esempio, 8,3a; 12,5a , ecc). Lo studio n. 102 non è stato preso in considerazione, poiché i suoi dati si riferiscono alla violenza domestica globale.

PREVALENZA DELLA VITTIMIZZAZIONE, DIVISA PER STUDI

Nella sezione degli studi longitudinali, i tassi di vittimizzazione totale sono più alti negli uomini in 11 studi, e in nessuno nelle donne; i tassi di vittimizzazione grave sono più alti negli uomini in 6 studi, e più alti nelle donne in 3 studi; altri 5 studi offrono percentuali simili in entrambi i sessi.

Nel caso degli studi trasversali, i tassi di vittimizzazione totale sono più alti negli uomini in 37 studi, e più alti nelle donne in 8 studi; i tassi di vittimizzazione grave sono più alti negli uomini in 27 studi, e più alti nelle donne in 11 studi; altri 27 studi offrono percentuali simili in entrambi i sessi.

Riguardo alle inchieste nazionali, i tassi di vittimizzazione totale sono più alti negli uomini in 3 studi, e più alti nelle donne in 8 studi; i tassi di vittimizzazione grave sono più alti negli uomini in 5 studi, e parimenti più alti nelle donne in 5 studi; altri 15 studi offrono percentuali simili in entrambi i sessi.

Infine, le quattro metanalisi considerate concludono che le percentuali di vittimizzazione sono simili in entrambi i sessi.

In totale, il numero di studi che registrano una maggiore vittimizzazione dell’uomo è considerevolmente più alto del numero di studi che registrano maggiori tassi di vittimizzazione nella donna, tanto per quanto riguarda la violenza totale (51 vs. 16) come della violenza grave (38 vs. 19).

Nota: è stato considerato che uno studio registra maggiori tassi di vittimizzazione per l’uno o l’altro sesso quando la differenza fra le due misurazioni è uguale o superiore al 10% della maggiore di loro; negli altri casi, i tassi si sono ritenuti similari. Le somme parziali e totale non coincidono con la cifra reale di studi considerati, per il fatto che non tutti contengono dati su entrambi i tipi di violenza (totale e grave).

Secondo i dati rispecchiati dal riassunto quantitativo mostrato nella presente sezione, la violenza di coppia è perpetrata in una percentuale leggermente superiore dalle donne (quadro 1); e il numero di studi che certifica questa più elevata percentuale di violenza femminile nelle relazioni di coppia è più del triplo per la violenza totale e il doppio per la violenza grave, in confronto col numero di studi che arrivano alla conclusione contraria. Altri studi (circa un terzo di quelli compresi nella tabella comparativa) registrano percentuali similari di violenza totale per entrambi i sessi (quadro 2).















Traduzione per CDVD a cura di Santiago G.

(Fonti: Centro Documentazione Violenza Donne; allegati uno e due, in spagnolo)

In un’epoca di inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”.

George Orwell

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