Categotry Archives: Minori e Giustizia

Panorama denuncia la pratica delle false accuse

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Un’altra falsa accusa di pedofilia

Il caso di un professore di Pisa, accusato dall’ex coniuge di abusi nei confronti della figlia di 7 anni

Questa è la brutta storia di una falsa accusa di pedofilia. Una storia che per ora ha travolto un professore universitario di Pisa, ma che rischia di rovinare irrimediabilmente la vita anche a una bambina che oggi ha poco più di 7 anni.

La vicenda inizia nel 2007 con una separazione burrascosa. Il professore e sua moglie si dividono; la donna si trasferisce con la figlia a 80 chilometri dalla città toscana, e subito accusa il marito di maltrattamenti. Due anni dopo, il giudice civile in sede di separazione stabilisce l’infondatezza di quella prima denuncia e dispone l’affido condiviso della bambina.

Tutto finito? Nemmeno per sogno. Anzi. A quel punto la madre alza il livello del conflitto e rivolge all’ex coniuge nuove accuse, questa volta denunciando all’autorità giudiziaria una serie di presunti abusi sessuali sulla figlia, avvenuti ancora nel periodo matrimoniale. «Le accuse anche in questo caso erano del tutto false» racconta oggi il professore a Panorama.it «ma comunque sono servite a impedirmi di vedere mia figlia per tre lunghissimi anni. E accuse altrettanto terribili sono piovute su chiunque (consulente tecnico del tribunale, psicologi, assistenti sociali…) osasse contraddire la verità professata dalla mia ex moglie. Pre fortuna sono tutte cadute».

Nella vicenda, secondo il professore pisano, ha avuto un ruolo cruciale una consulente tecnica di parte, la  ginecologa milanese Cristina Maggioni. «Costei» dice l’uomo «circa tre anni fa ha svolto una visita su mia figlia e ha prodotto una relazione che certificava gli abusi sessuali». La dottoressa Maggioni era già salita alla ribalta delle cronache tra il dicembre 2000 e il gennaio 2001, perché arruolata come consulente dalla procura milanese in un processo aperto contro Marino Viola, un taxista ingiustamente accusato di pedofilia nei confronti della figlia.

Il caso, a suo tempo raccontato proprio da Panorama, aveva suscitato molto clamore perché in quel gennaio 2011 Viola, che era stato arrestato nel settembre 1996, era stato assolto con formula piena da tutte le accuse. Era accaduto che il pubblico ministero titolare di quell’inchiesta, l’attuale procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno, venisse sostituito in udienza da un altro sostituto procuratore, Tiziana Siciliano. A sorpresa il nuovo pm, studiate le carte ricevute dal collega, aveva chiesto e ottenuto l’assoluzione del taxista. La pm Siciliano aveva infatti verificato che la consulente Maggioni aveva certificato una violenza sessuale in realtà mai avvenuta.

Erano state durissime le parole usate dalla pm Siciliano nell’arringa con cui il 21 dicembre 2000 aveva chiesto l’assoluzione per l’imputato Viola: “Qui” aveva detto Tiziana Siciliano “siamo di fronte a una specie di discesa negli inferi (…). Viene da chiederci se certi consulenti siano solo incompetenti o anche in malafede (…). Il sistema con cui sono state raccolte le dichiarazioni è inutilizzabile; l’intervista della bambina non è mai registrata. Sono perizie, queste, fatte da gente che dovrebbe cambiare mestiere…”. Aveva poi aggiunto che “questi esperti non hanno alcuna professionalità. Non hanno nessun motivo di godere della fiducia dell’autorità giudiziaria, non hanno capito niente”.

Era seguita una dura polemica. Alcune interrogazioni parlamentari avevano chiesto addirittura che «gli uffici giudiziari italiani si astengano, in modo assoluto, dal conferire nuovi incarichi a Maggioni» e suggerito la formazione di una commissione d’inchiesta sul caso. Si era anche molto criticata la competenza di quelli che erano stati catalogati come “abusologi professionisti”: erano stati così definiti i “tecnici” (psicologi e ginecologi) che abitualmente prestavano i loro servizi professionali soprattutto all’accusa, troppo spesso in collegamento con le strutture destinate ad accogliere (a pagamento) i bambini sottratti alle famiglie. La pm Siciliano aveva denunciato che in nove anni gli stessi altri periti avevano condotto ben 358 perizie giurate per conto della procura milanese.

Sono trascorsi oltre 11 anni da quello scandalo milanese, e nulla pare essere cambiato. Per fortuna, anche in questo caso, la giustizia ha fatto il suo corso correttamente: la perizia di parte scritta dalla ginecologa Maggioni è stata totalmente smentita da una consulenza ordinata dal tribunale. Ed è stato stabilito che la bambina in realtà, non aveva mai subito alcun abuso. Per fortuna, anche a Pisa, è stato un pubblico ministero a scoprire che la notizia di reato era infondata. Esattamente come 11 anni fa era accaduto a Milano.

Ma il problema vero del professore pisano, purtroppo, quello non è stato affatto risolto: perché dopo l’assoluzione l’uomo ha chiesto la sospensione della potestà genitoriale per la madre, ma dopo un anno e mezzo, il Tribunale dei minori non ha ancora deciso. La figlia continua così a vivere con la mamma, e lontano dal padre che pure è stato riconosciuto nelle sentenze come unico genitore adeguato, anche se la bambina è stata formalmente affidata ai servizi sociali.

Un’ultima considerazione: nel saggio Presunto colpevole (editore Chiarelettere), il criminologo Luca Steffenoni ha calcolato che “in Italia l’86% delle separazioni coniugali finisce con una denuncia penale per qualche delitto, e la tiopologia più frequente è quella degli abusi sessuali”. Il 96% delle denunce, poi, si dimostrano false. Questo imporrebbe un’estrema cautela da parte dell’autorità giudiziaria, anche e soprattutto nella scelta dei consulenti tecnici. Per evitare nuovi errori (e orrori) giudiziari.

 

http://italia.panorama.it/in-giustizia/Un-altra-falsa-accusa-di-pedofilia

2001 Francia, via libera alla residenza alternata: «La continuità affettiva è un diritto di tutti»

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Cambia il codice della famiglia. I figli dei separati si divideranno fra papà e mamma in eguale misura Segolene Royal, il ministro promotore: «La continuità affettiva è un diritto di tutti»

Cancellata ogni diversità fra i genitori.
I bambini avranno la doppia residenza.
Basta con le visite un fine settimana su due Francia, via libera alla paternità «congiunta».
Cambia il codice della famiglia.
I figli dei separati si divideranno fra papà e mamma in eguale misura

Tempi più sereni, e anche più impegnativi, per i papà separati.
E tempi di sicuro meno traumatici per i figli di genitori divisi.
Almeno nella Francia dei diritti e delle garanzie sociali, che ha scritto un altro capitolo innovativo nel codice di famiglia.

Una legge, approvata all’ unanimità all’ Assemblea nazionale, cancella, rispetto ai figli, la diversità fra coppie separate, sposate e di fatto, introduce la paternità congiunta in caso di separazione, garantisce al bambino la continuità degli affetti e delle relazioni con nonni, zie e parenti.

Una rivoluzione insomma, che privilegia bisogni affettivi dei minori rispetto a conflitti degli adulti e tende ad adattare le norme all’ evoluzione della società civile, così com’ è oggi, e non in ossequio ad un ideale astratto di famiglia.

In Francia, ogni anno, 300 mila bambini nascono fuori dal matrimonio (il 40 per cento, contro il 6 per cento di trent’ anni fa), e a 280 mila matrimoni corrispondono, annualmente, 120 mila divorzi. Una famiglia su cinque è ricomposta o monoparentale.

Realtà dolorosa, ma comune. Nel 90 per cento dei casi, i figli vengono affidati alla madre, la quale sovente o lamenta la latitanza del padre o gli chiude le porte. E difficile, se non impossibile, non amarsi più e continuare a volersi bene, o almeno anteporre l’ interesse dei bambini.

Ancora più arduo cancellare per legge egoismi e rancori.

Ma la Francia ci prova.
Basta, allora, dicono i legislatori, con le responsabilità limitate, con la «scomparsa» del padre, con la doppia e gravosa funzione educativa delle madri separate.
Ma basta anche con i figli usati per battaglie legali fra coniugi, con le piccole e grandi rivalse di ex mogli vendicative, con figli di separati che diventano una «proprietà» delle madri.

Il padre ha il dovere, ma anche il diritto, di vedere con assiduità i propri figli e di mantenere una relazione educativa ed affettiva, indipendentemente dal domicilio del minore.

Attualmente, si calcola che soltanto il dieci per cento dei bambini che vivono con la madre vedano regolarmente il padre una volta la settimana.

Con la nuova legge, viene rivisto anche il principio della residenza del minore stabilita a priori: potrà essere prevista una residenza alternata e dovrà essere trovato un accordo nel rispetto di esigenze dei figli, «perché la divisione del tempo fra genitori sia meno diseguale».

«Dobbiamo superare la formula standard che riserva ai padri il classico weekend su due», ha detto Segolene Royal, ministro della Famiglia e dell’ infanzia.

«La parità – ha aggiunto – è un obiettivo nella politica, nella società civile e nella famiglia.

La legge armonizza scelte personali e solidarietà sociale.

Oltre a essere un diritto del padre, la continuità affettiva di entrambi i genitori è anche un diritto della madre nell’ esercizio della responsabilità verso il minore». In concreto, la nuova normativa si fa carico di una «mediazione» fra i genitori perché trovino un accordo prima di finire davanti al giudice. Cancella alcuni articoli del codice che diversificano l’ esercizio della patria potestà a seconda che i genitori siano uniti, separati, divorziati o conviventi. Introduce, per le situazioni economicamente più difficili, forme di sostegno sociale. Abolita dal femminismo, la «patria potestà» ritorna.

Non più come prerogativa del padre, ma come dovere di entrambi i genitori. Anche quando non si amano più.

NOVE SU DIECI ALLA MAMMA
Nel 1995 il 92,8 per cento dei casi di separazione vedeva i figli affidati alla madre; nelle sentenze di divorzio la cifra calava leggermente: i ragazzi restavano con la mamma nel 90,3 per cento dei casi. Nel ‘ 98, ultimo anno «censito» sull’ argomento le cose non erano cambiate: nove volte su dieci i figli sono rimasti ancora alla madre sia nella prima fase della separazione sia di divorzio.

GENITORE ANTIPATICO
Alcune sentenze in materia hanno fatto storia. Come quella del gennaio 1998 della Cassazione che riconobbe agli adolescenti separati il diritto a non vedere il genitore non affidatario se provano per lui antipatia.

OBBLIGO ALLA PUNTUALITA’
Una sentenza del maggio ‘ 99 ha obbligato i genitori separati a presentarsi puntuali agli orari di visita stabiliti. Altrimenti l’ altro genitore è libero di organizzare come meglio crede la giornata.

PENALI PER LE VISITE MANCATE
Una delle ultime sentenze della Cassazione in materia, datata marzo 2000, ha stabilito una penale per chi non esercita il diritto di visita dei figli minori. Il genitore in questione è così chiamato a rimborsare, in denaro, all’ altro, gli spazi di libertà che gli sottrae non tenendo i bambini quando è il suo turno.

IL COMMENTO
Ma le formule giuridiche da sole non bastano La proposta francese, pur nella sua più ampia prospettiva, fa tornare alla mente il progetto unificato che venne approvato in Italia – praticamente all’ unanimità – dalla Commissione giustizia della Camera in sede referente. Progetto che poi è rimasto impantanato ed è caduto nel nulla con la fine della legislatura.

Anche il progetto italiano aboliva il concetto di affidamento dei figli minorenni alla madre o al padre, e il concetto di affidamento congiunto. Si voleva insomma attuare, anche da noi, attraverso l’ abolizione di formule ormai considerate logore, una sostanziale parità tra i genitori, evitare che il genitore affidatario si sentisse il «padrone dei figli» e il genitore non affidatario si sentisse un questuante di rapporti e di familiarità. Un questuante sul piano affettivo ma un ufficiale pagatore sul piano economico. Questo discorso evidentemente è la voce dei padri che nella grandissima maggioranza e nella tradizione non sono i genitori affidatari, essendo le madri preferite e privilegiate.

Una voce che si manifesta in rabbia o in mortificazione solitaria, o che assume un modulo corale attraverso le associazioni dei padri separati.
Il progetto italiano che non usava il termine affidamento prevedeva naturalmente, però, che il giudice dicesse dove il figlio minore in concreto deve vivere.

La proposta francese, che avrà certo più sollecita fortuna, non solo afferma principi di uguaglianza, ma anche il diritto del minore di avere la sua famiglia, e questo sia che i genitori siano stati sposati, sia che siano stati solo dei conviventi. In questo concetto di famiglia entrano anche i nonni, figure che possono avere un ruolo determinante e positivo, ma che in concreto spesso vengono fatalmente emarginati dai genitori in contrasto.

È chiaro dunque che il progetto francese merita attenzione e apprezzamento, ma c’ è un avvertimento, senza confini, che l’ esperienza suggerisce. Non saranno mai le sole formule giuridiche, talora enfatiche e ottimistiche, a risolvere i problemi. I genitori in lite per i figli danno il peggio di sé, con la supponenza di voler difendere la prole in verità vogliono spesso offendere il coniuge, il compagno o la compagna. Le formule giuridiche possono costituire un valido aiuto, ma il costume deve cambiare.

La mediazione familiare affidata a psicologi esperti può fare moltissimo, proprio perché non dà regole imperative e schematiche, ma tende a responsabilizzare i genitori che la forza e la ragione la devono cercare e trovare in loro stessi.

Fonte: corriere della sera

Avvocato specializzato in false accuse di pedofilia per privare i bambini dei loro papà

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«Secondo gli esperti, le calunnie hanno quasi tutte le stesse caratteristiche: vengono usati bambini piccoli, da 2 a 5 anni, che non presentano alcun segno di violenza, coinvolti in separazioni conflittuali in cui i nonni spesso assumono un ruolo decisivo».

La notizia arriva dal settimanale l’Express, che però non fa il nome di chi, fingendo di difendere i bambini, li ha devastati con false accuse di pedofilia. Forse temendo che questi criminali, adusi ad abusare del sistema giudiziario per scopi pedo-criminali, potessero cercare di mettere a tacere le proprie malefatte costruendo una denuncia per diffamazione.

Apparso negli USA qualche anno fa, un allarmante fenomeno ha preso piede nei tribunali, una sorta di follia che porta le coppie in guerra per l’affido dei figli a usare la più terribile accusa, quella di incesto. Centinaia di papà — molto più raramente le madri — si dichiarano oggi calunniati dall’ex: «È l’arma atomica delle separazioni conflittuali». […]

I casi di false accuse sembrano curiosamente molto più numerosi nella piccola città di Pontoise, vicino a Parigi, dove il fenomeno ha assunto l’aspetto di una epidemia. 15 papà accusati nello stesso tribunale per storie simili, alla fine si sono uniti per proclamare la propria innocenza. Nessuno è mai stato condannato e 9 già assolti. In 10 di questi casi le madri accusatrici erano rappresentate dalla stessa avvocata. Che in tutti i casi ha presentato la denuncia secondo la formula che impedisce di archiviare il caso obbligando ad aprire unprocedimento penale. «La sig.ra M. è una attivista femminista che fa da avvocata per la locale Casa della Donna» dice Dominique Marion, uno dei padri falsamente accusati «si è specializzata in tali accuse, che usa per mettere i papà fuori gioco e allontanarli dai figli». La relazione di uno psicologo esperto nominato dal Tribunale parla apertamente di «ruolo nefasto» giocato dall’avvocata femminista, qualificata come «fanatica» e «settaria»: «I suoi eccessi, la sua abitudine alla menzogna, a volte diffamatoria, dimostrano la sua incapacità a mantenere una distanza sana ed oggettiva in queste faccende». […]

La situazione è diventata così grave che il Procuratore ha ricevuto 10 di questi papà. Oltre agli eccessi dell’avvocata femminista, hanno lamentato la lentezza della giustizia ed il ruolo negativo di alcuni «esperti» abusologi che rilasciano certificati di convenienza alle madri calunniatrici.

Una psichiatra infantile, la dr. B, coinvolta nei fattacci di Pontoise è stata interdetta per 3 anni dall’Ordine dei Medici per aver ripetutamente denunciato «la responsabilità di un papà in abusi sessuali privi di fondamento» […].

«Certe madri fanno il tour degli abusologi fino a quando trovano quello che certificano quello che vogliono» constata Nicole Tricart, presidente del Tribunale dei Minori di Parigi «a volte ci troviamo di fronte certificati che fanno rabbia. Come quella psicopatica che ha descritto in dettaglio l’esame con il quale decideva che una bambina di 5 anni era stata abusata: le sentiva il polso mentre sussurrava all’orecchio della bambina la parola “incesto”, dall’aumento dei battiti ha dedotto un forte trauma sessuale». QED

«Molto spesso il primo passo compiuto dal magistrato è quello di sospendere i diritti di accesso del genitore accusato. Che nel caso di una falsa accusa, è esattamente ciò che il genitore accusatore sta cercando».

Nessuno esce indenne dalle accuse, né il bambino né l’imputato né l’accusatore, ha detto Lawrence Becuywe, giudice del tribunale di Pontoise. Dal momento in cui sono stati lanciati, si entra nel campo della follia, odio o perversione allo stato puro. […]

Lo psicologo canadese Hubert Van Gijseghem, specialista mondiale nel settore, afferma che le false accuse hanno conseguenze gravi quanto la pedofilia vera e propria.

 

http://is.gd/Xf9cJR

Università di Milano-Bicocca: il 96% delle denunce di abusi su minori sono false

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Roma, 27 mag (Velino) – “Un tempo si diceva che l’Italia fosse un paese di santi, eroi e navigatori. Adesso sembra che tutti quanti abbiano lasciato il posto ai pedofili”. Così Marco Casonato, docente di Psicologia dinamica all’ università di Milano-Bicocca, commenta con il VELINO il dato dal quale risulta che il 96 per cento circa dei casi registrati ogni anno in Italia, relativi a denunce di minori che sostengono di aver subito una violenza sessuale, è falso. Un dato che rafforza l’allarme lanciato da tempo da psicanalisti e psicologi: attorno al drammatico fenomeno della pedofilia si sta scatenando una vera e propria psicosi altrettanto pericolosa.

Casonato, che è stato tra gli organizzatori del convegno “Abusi, falsi abusi e scienze forensi” tenutosi nell’ateneo milanese dal 20 al 22 maggio, dichiara: “Dai dati diffusi dalla magistratura all’inaugurazione dell’anno giudiziario, si scopre che solo una bassissima percentuale di persone processate per abusi su minori viene condannata. Questo non perché vengano fatti pochi sforzi, ma perché è molto facile essere accusati ingiustamente. Basti pensare che in diversi asili, piscine o teatri per bambini non è più possibile scattare una foto, pena l’essere guardati con sospetto. I genitori alle recite dei propri figli proibiscono ad altri genitori di riprendere lo spettacolo con le telecamere per aura che tra loro si nasconda un pedofilo che diffonderà le immagini. Nonni e zii girano fuori da scuola con fogli in tasca nei quali è attestato per iscritto che sono parenti del bambino. Si è scatenata una psicosi, insomma, che è grave quanto la pedofilia stessa e che causa danni non certo inferiori”.

Casonato individua il periodo in cui è esplosa questa psicosi collettiva .
Dal 1993-94 è stato un crescendo – dichiara lo psicologo -. In Italia si è ripetuto quanto era accaduto negli anni Ottanta in America. Vicende simili a quelle di Rignano Flaminio e Brescia sono già successe negli Usa. Si può dire
che il fenomeno ha investito un po’ tutti i paesi occidentali, chi prima e chi dopo, ma è successo dappertutto. In Italia, forse, ci abbiamo poi messo del nostro”. E cita il famoso caso di Gino Girolimoni, il “mostro” di Roma degli
anni Venti, accusato ingiustamente di stupri e omicidi di bambine e poi scagionato. “Il povero Girolimoni fu prosciolto completamente da un tribunale dopo nove mesi – sottolinea Casonato -. Oggi, in Italia se si è fortunati il proscioglimento arriva dopo dieci anni. Se qualcuno è colpevole mi sta anche bene la durata della pena. Ma se si è innocenti, dieci anni della vita vengono distrutti”.

Qual è stata la causa scatenante del dilagare di questa paranoia? “Sarebbe bello se ci fosse un motivo ben individuabile –risponde Casonato -. È una sorta di ‘tempesta perfetta’ che ha bisogno di tanti elementi per erompere. Ne posso citare alcuni individuati da diversi studiosi internazionali. Ad esempio la fine della paura nei paesi occidentali del comunismo sovietico, del terrore della guerra atomica, delle spie e dei sabotaggi. Non è un caso che negli Stati Uniti è stato rilevato come la paura degli abusi sia parecchio diminuita dopo l’attentato dell’11 settembre, sostituita dall’angoscia per il terrorismo islamico. Del resto in ogni epoca storica le società hanno bisogno di un babau.
Un tempo ci si scatenava contro le streghe e gli eretici”.

Tra gli altri fattori, Casonato cita un certo tipo di cultura femminista. “Premetto che non ho niente contro il femminismo, del quale esistono diverse versioni – dichiaralo psicologo -. Un certo modello di cultura femminista, però, vede l’ uomo come un essere intrinsecamente pericoloso per le donne e i bambini”. E ancora, ad alimentare la psicosi concorre anche lo sfascio della giustizia italiana. “Parlare della situazione della giustizia nel nostro Paese è come sparare sulla Croce Rossa – afferma Casonato -: ci sono pochi uomini, scarsi mezzi e tante cose non funzionano. Come dicevo prima, un iter processuale che dura dieci anni non fa che generare e alimentare il clima velenoso dei sospetti”.

Non inferiore la responsabilità delle famiglie. “Preferiscono credere al babau piuttosto che stare dietro ai propri figli – rileva Casonato -. Adesso sul banco degli accusati finisce internet. Ma internet è come una bicicletta: ci devono essere un papà e una mamma che insegnino ai bambini come si usa.
Chiaro che se il figlio viene lasciato solo davanti al computer, davanti la televisione o in mezzo alla strada le probabilità che gli succeda qualcosa sono più elevate”. E quali le responsabilità della stampa in questa crescente psicosi della pedofilia? “Se c’è un ‘mostro’ da sparare in prima pagina si usano i titoloni – risponde lo psicologo -. Poi quando il ‘mostro’ si scopre
che non è più tale, perché magari c’è stato uno sbaglio o le cose sono state chiarite, non ne parla più nessuno. Fino a che non ne verrà fuori un altro a rimpiazzarlo – conclude Casonato -, quello della pedofilia continuerà a essere
il babau dominante nella società italiana”.

Fonte: “il velino” e http://www.avvocatofrancescomiraglia.it/?p=512

http://www.abusologi.com/il-96-delle-denunce-sono-false/

Rapporto fra la Giustizia e i Minori. Il parere del giudice Roberto Ianniello.

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Riprendiamo una intervista, apparsa sulla rivista Psychomedia, al giudice dott. Roberto Ianniello, che è stato recentemente vittima di incredibili e vergognosi attacchi (pare che il giudice abbia osato tentare di proteggere un bambino da una madre assistita dall’avv. Andrea Coffari).

Padre di due figli e marito di una pediatra e psicoterapeuta il dott. Roberto Ianniello è giudice anziano del Tribunale dei Minorenni di Roma. E’ stato protagonista di una delle più significative esperienze di collaborazione fra Magistratura e Servizi Sociosanitari, la UORMEV (2) Attualmente fa parte del gruppo di ricerca sulla Mediazione Interistituzionale affidato dal Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma all’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza e presieduto dal prof. Novelletto. Inoltre il dott. Ianniello coordina uno dei gruppi distrettuali organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura finalizzati all’autoformazione dei giudici attraverso la discussione dei criteri e delle metodologie utilizzate nello svolgimento del proprio lavoro istituzionale.

In quella che da molti viene definita una società “senza padri” e di figli “sregolati” la figura del giudice del Tribunale dei Minorenni appare sempre più intensamente investita di aspettative e di timori, sia da parte dei ragazzi e delle loro famiglie che dai Servizi sociosanitari deputati alla prevenzione e alla riabilitazione del disagio adolescenziale. Il magistrato appare collocato su un crinale fra due serie di rappresentazioni: su un versante vi è quella di una “giustizia giusta”, a cui viene delegata la responsabilità di ripristinare l’ordine che è stato sovvertito nella società e, in particolare, di garantire la tutela del minore, il più fragile e bisognoso fra i diversi attori sociali.
Sull’altro versante vi è la rappresentazione di una “giustizia ingiusta”, lenta oppure troppo frettolosa e fallace. In quest’ultimo caso il giudice viene rappresentato come un padre assente e autoritario, che dispone provvedimenti ma non ne verifica l’attuazione, sottraendosi alla relazione con gli utenti e con i Servizi. Insomma, il giudice dei minori è un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano e questa intervista è finalizzata a conoscerne meglio ruoli, funzioni, orientamenti.

D. Partirò dal principio: quando e perché si è costituito in Italia il Tribunale dei Minori?

 

R. Il Tribunale dei Minorenni è nato nel 1934 principalmente come organo di controllo della gioventù, in un periodo in cui il Governo mirava al controllo totale della vita sociale dei cittadini. Esso avrebbe costituito un po’ un contrappeso al potere dell’Azione cattolica sui giovani e le famiglie, che il fascismo non riusciva ad intaccare. Negli anni ’30, ’40, Ô50 il giudice dei minori aveva una competenza molto estesa, particolarmente nei settori penale e amministrativo. Poteva intervenire sui minori “irregolari nella condotta”, come diceva la legge, per mandarli in case dove erano contenuti e “curati”. Si è lavorato molto sul piano giurisprudenziale per adeguare le norme alla realtà sociale e culturale in evoluzione. Quando verso la fine degli anni’60, sulla scia delle ricerche e delle scoperte americane, il concetto di abuso è giunto anche in Italia si è attivata la protezione dei minori dall’abuso, utilizzando le norme civili del codice degli anni ’40 attraverso un imponente lavoro interpretativo. Il giudice dei Minorenni è diventato sempre più il giudice dell’abuso e si è attrezzato per fronteggiare questo fenomeno sociale che si scopriva via via essere molto esteso.

D. In cosa consiste il lavoro di un giudice del Tribunale dei Minori in una metropoli come Roma?

 

R. Raffrontare il giudice dei minori alla metropoli mi sembra riduttivo. Il Tribunale di Roma opera su tutto il Lazio e ciò comporta occuparsi anche dei problemi di Comuni piccoli o piccolissimi: basti pensare che la sola provincia di Frosinone ha novantasei Comuni. Esistono tuttora molte problematiche legate al costume locale. Ad esempio, abbiamo potuto osservare fenomeni di incesto in province nelle quali permangono residui di una sorta di iniziazione rituale del pater familias rispetto alle figlie adolescenti, a volte anche preadolescenti. Come pure la resistenza culturale a istituti innovativi come l’affidamento familiare, per persone abituate a ritenere i figli altrettante cose proprie.

D. Quali sono le problematiche di cui vi occupate?


R.
Da un’opinione pubblica abituata alle schematizzazioni il Tribunale dei Minorenni viene considerato il Tribunale dell’adozione e del perdono giudiziale. In realtà il 90% della competenza civile del Tribunale dei Minorenni è nel campo dell’abuso all’infanzia.
E’ un lavoro impegnativo perché è molto difficile individuare questa patologia dei rapporti familiari che spesso, in una visione ristretta, viene ridotta ai maltrattamenti fisici o alle violenze sessuali ma che ha un contenuto ben più ampio. L’abuso, in Italia, si concretizza in larga maggioranza in ipotesi di abbandono. Nella nostra società il bambino subisce molteplici e ripetuti abbandoni che spesso sono ascrivibili ad una ridotta capacità dei genitori ad occuparsene, non solo a causa dei molteplici impegni contingenti ma anche per una sorta di carenza sotto il profilo della trasmissione culturale. Una volta le mamme insegnavano alle mamme. La mia generazione, che è la generazione del Ô68 e del ’77, ha rifiutato ogni forma di tradizione, ogni forma di insegnamento dei padri. Tuttavia la mancanza di radici ed il rifiuto dell’eredità culturale ad un certo punto emergono in termini di disorientamento. Alcuni genitori non hanno avuto una bussola per orientarsi ed hanno dovuto inventarsi le risposte ai bisogni dei figli, per rispondere in maniera non autoritaria, come si faceva prima, pur senza conoscere fino in fondo i comportamenti corretti. A volte si sono commessi degli abusi anche non sapendolo, credendo di fare bene, e gli abusi influiscono sullo sviluppo dell’affettività, dell’aggressività e delle relazioni con l’esterno del bambino, senza parlare degli aspetti cognitivi. Queste carenze nell’evoluzione ad un certo punto emergono e spesso ciò si verifica nell’adolescenza.

D. In certi casi l’adolescenza sarebbe una sorta di cartina tornasole dell’abuso, dunque?

R. Purtroppo si cerca di curare con i farmaci o con equivalenti dei farmaci, come se tutta l’adolescenza fosse in sé una patologia, e si perde in questo modo l’occasione unica di intervenire per aiutare il ragazzo a rimettere le cose a posto in un momento caratterizzato da una grande mobilità psicologica. Non c’è da meravigliarsi dello straordinario successo che ha avuto, prima negli Stati Uniti e ora anche da noi, quella sindrome del bambino iperattivo con la quale si è preso ad etichettare come malattia qualsiasi disturbo che il bambino presenta nella relazione.

D. Chi vi segnala le situazioni di abuso?

 

R. La segnalazione può avere varie origini: un genitore, i parenti, i vicini di casa, la scuola. Non è facile individuare i fattori di rischio evolutivo e quelli di protezione. Qualche anno fa a Monza l’équipe del prof. Bertolini, effettuò una ricerca sui fattori di rischio. I ricercatori si rendevano conto che le famiglie abusanti normalmente sono occulte e non hanno relazioni con le istituzioni: non mandano i figli al nido o all’asilo. Gli unici momenti in cui si potevano individuare le situazioni di rischio familiare erano quello della nascita (il passaggio dalla ginecologia e dall’ostetricia) e il momento della visita pediatrica. Avevano allora predisposto dei questionari per individuare possibili situazioni che poi venivano seguite con un follow up atto a vedere come si poteva contenere il rischio. Spesso la segnalazione individua un’emergenza e richiede risposte immediate ad un disagio già in corso, mentre la modifica preventiva di una situazione di rischio permetterebbe di lavorare soprattutto con le famiglie, in una specie di alleanza nell’interesse del minore.

D. I non addetti ai lavori sanno che le decisioni del Tribunale vengono prese nella Camera di consiglio, ma non ne conoscono l’effettivo funzionamento.


R.
La Camera di consiglio è composta da quattro persone: due sono giudici di carriera e
due sono giudici onorari: psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri, pedagogisti, insegnanti o avvocati, nominati a quella funzione proprio perché hanno una specializzazione rispetto alla trattazione dei problemi infantili. Uno dei due giudici è quello che conosce meglio il fascicolo, perché ha effettuato l’istruttoria.
L’altro è il presidente del collegio. Chi ha compiuto l’istruttoria riferisce quello che è successo, dalla segnalazione del caso a tutto quello che si è accertato in seguito (dichiarazioni delle persone, indagini del servizio sociale o della polizia) fornisce il suo parere in proposito e propone una soluzione. Questa soluzione viene discussa e a volte può non essere accolta. Può capitare a questo giudice di dover scrivere un provvedimento su cui egli non sia del tutto d’accordo ma che è stato votato dalla maggioranza del collegio. Questo è difficile da far comprendere ai Servizi territoriali ed alle persone che hanno collaborato con il Giudice nella raccolta dei dati, fornendo la propria opinione e le proprie proposte. Il Tribunale dei Minorenni sta cercando di riacquistare quanto più possibile un ruolo di imparzialità che nella foga della protezione dell’infanzia si era un po’ persa. I Servizi a volte pensano di poter concordare con il giudice una soluzione, ma questo non è possibile. Mi ricordo che nelle riunioni che c’erano all’epoca della UORMEV, in cui si discuteva dei casi, molte volte c’era da parte degli operatori l’accusa di non aver aderito alla proposta del servizio.

D. Il dottor Fadiga, l’ex presidente del tribunale dei Minorenni di Roma, segnalò che in numero sempre maggiore gli adolescenti si sottraggono al controllo della famiglia e della scuola e si orientano verso condotte antisociali senza i provvedimenti civili in materia di potestà genitoriale né i provvedimenti di ricovero in strutture protette riescano a fornire risposte di aiuto e di contenimento. E’ d’accordo?

 

R. Sono d’accordo. In istituto i problemi non si risolvono ma si aggravano, salvo rare eccezioni. Se l’adolescente rimane in famiglia, per quanto in una situazione conflittuale, ha qualche rapporto affettivo in più, l’ambiente è meno impersonale. Gli istituti dove si può effettuare una terapia si contano sulle dita delle mani. Di solito gli istituti sono privati e quando l’adolescente manifesta dei problemi (dà fastidio, ruba, picchia i compagni, è aggressivo) lo buttano fuori. Insomma ÔAlla prima che mi fai, fai fagotto e te ne vai!’, come diceva un personaggio del Corriere dei Piccoli. C’è bisogno di case famiglia e istituti qualificati e accreditati che non abbandonino l’adolescente a se stesso o lo facciano avviare ad una precoce psichiatrizzazione. Il problema degli adolescenti è un problema familiare ma anche un problema sociale. Spesso i Comuni possono offrire agli adolescenti solo le sale giochi, i video poker e forse una piazza come luogo di aggregazione. Se non hai la ragazza, il PC, non giochi nella squadra di calcio locale o non frequenti la parrocchia cosa fai, in un piccolo paese? Bisognerebbe effettuare investimenti mirati per dare agli adolescenti più alternative: ad esempio realizzare centri diurni di aggregazione, con attività più o meno specializzate.

D. Mi sembra che abbia toccato il problema particolarmente spinoso dei luoghi e delle modalità dove “trattare” adolescenti problematici.

 

R. Il giudice può individuare una diagnosi adeguata, e il trattamento adeguato, ma poi la terapia non si può realizzare perché l’adolescente di Pignataro Interamnia o di Broccostella non trova nelle istituzioni del suo paese i mezzi e la volontà per essere seguito. Trovare un luogo per curarlo costa troppo. Da tempo ritengo che i Comuni che non riescono da soli a realizzare i compiti istituzionali che la legge gli affida in materia di tutela delle persone dovrebbero trovare dei sistemi per unire le loro forze, in maniera da sostenere insieme il peso e le difficoltà di questa azione. Gli unici consorzi che i Comuni sono riusciti ad organizzare sono quelli per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che, assieme allo smaltimento dei rifiuti, sia necessario pensare a curare dei cittadini che, se non verranno aiutati e seguiti, potranno creare dei problemi futuri, non solo a se stessi e alle loro famiglie ma a tutta la società.

D. Quali sono i problemi di un’istituzione complessa come quella di un tribunale?

 

R. Sono i soliti, i condizionamenti dall’alto e dal basso. Dall’alto quelli legati a certe prassi burocratiche di origine ministeriale o anche dalla Corte d’appello: non so, compilare dei registri o non ricevere la copertura dei posti scoperti in organico. Dal basso il fatto di non disporre di personale qualificato. Il Tribunale dei Minorenni poi differisce dagli altri organismi giudiziari. Normalmente il giudice ha come interlocutori la polizia e i consulenti tecnici. I consulenti tecnici sono nominati dal giudice e in qualche modo dipendono dal giudice; il capo della polizia giudiziaria è il procuratore della repubblica, un magistrato. Il Giudice dei Minorenni, però, non agisce con la polizia né con i consulenti tecnici ma con specialisti di altre professioni che hanno un diverso ordinamento e diverse dipendenze gerarchiche, vengono pagati da altre istituzioni e sono totalmente liberi rispetto al giudice. Il giudice non può emettere ordini nei loro confronti. Essi devono svolgere il loro lavoro secondo i criteri della loro professione, che sono molto spesso diversi da quelli giuridici.

D. Si pone quindi un problema di integrazione fra queste diverse figure?


R.
Sì, a livelli diversi. Sia in termini di comprensione del linguaggio che di conflitti fra i dirigenti delle diverse istituzioni che possono fortemente condizionare il risultato di questa attività, che è un’attività complessa. Ormai l’hanno capito un po’ tutti che su un bambino, e soprattutto su un adolescente, si può sperare di ottenere un risultato se si lavora in équipe, con più persone che portino le proprie competenze scientifiche ma anche le capacità personali, sia tecniche che empatiche. Io mi batto da anni per la creazione di Servizi multidisciplinari, formati da più operatori che lavorano insieme. L’idea di risolvere i problemi con il singolo assistente sociale, magari relegato in un piccolo Comune sulla montagna, è pura utopia.

D. Eppure talvolta fra magistrati ed operatori dei servizi si registra una polemica: i primi contestano ai servizi sociosanitari del territorio di non fornire adeguati elementi per il giudizio e la decisione conseguente; i secondi denunciano la resistenza dei magistrati a voler realmente collaborare con altri professionisti e una tendenza a voler risolvere da soli i problemi. Qualcuno ha parlato addirittura di giudici in camice bianco e psicologi in toga nera. Qual’è la sua opinione in proposito?

 

R. E’ una polemica vecchia, credo abbastanza superata. Adesso l’accusa principale è quella di non voler concordare la decisione, mentre il giudice decide come terzo. Per cui ci sono richieste strane, ad esempio che la relazione del Servizio rimanga segreta. Ma come si fa a rendere segreto l’atto di un processo in un sistema in cui c’è la massima trasparenza a garanzia di tutti? Capita ancora, però, che certe indagini e certi accertamenti siano carenti e non diano gli elementi sufficienti per decidere, o che vengano effettuati dopo un tempo talmente lungo da rendere vana la protezione. Il giudice non attende passivamente questo tempo: ogni tre mesi al massimo sollecita una risposta; ma io ho avuto delle ASL che mi hanno risposto, nonostante solleciti stringenti, dopo oltre un anno. E allora l’alternativa è denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Ma serve realmente fare questo? Una denuncia non facilita una collaborazione. Quindi il rapporto è sempre molto delicato. In ogni lavoro, sia fra i giudici che fra gli operatori e gli specialisti dei servizi, ci sono persone brave e meno brave, persone che hanno voglia di lavorare e persone che non l’hanno. Il problema vero è quando un Servizio s’identifica con la figura di una sola persona: se questa persona è impreparata è un guaio per tutti.

D. Diversi esperti propongono di migliorare il faticoso processo di integrazione fra magistrati e operatori dei servizi introducendo una specifica formazione psicologica per i primi e una formazione giuridica per i secondi. Non le sembra che in questo modo si dia troppo spazio agli aspetti intellettuali e troppo poco allo scambio e alla comunicazione diretta di atteggiamenti, contenuti e modelli culturali caratteristici delle specifiche professioni?

 

R. Penso di sì. L’integrazione è molto difficile anche perché i ruoli sono diversi: i Servizi devono svolgere le loro competenze in materia di accertamento, di prognosi, di individuazione delle problematiche e di proposte di soluzione, mentre il giudice deve giudicare. Il compito del giudice è di effettuare la iuris dictio, cioè dire quale norma di legge si applica al caso concreto e qual’è il rimedio alla violazione che si è verificata. E’ indubbio che una formazione specifica possa essere utile nel senso di creare le basi per una formazione comune. Però mi spaventa pensare ad una formazione di tipo tayloristico, nella quale ci sia il Docente e i discepoli che devono abbeverarsi al suo sapere. Una formazione così ormai abbiamo scoperto non funziona, non serve a scambiare ed elaborare le esperienze, i diversi modi di pensare e di sentire, né ad evitare appiattimenti cognitivi.

D. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore i delitti commessi da alcuni adolescenti italiani, da Pietro Maso alle ragazze di Chiavenna e di Foggia fino a Omar ed Erika. Dal suo osservatorio a lei sembra che la violenza giovanile sia in aumento in Italia?

 

R. Direi di no. I dati statistici ci dicono che il livello di delinquenza giovanile in Italia è il più basso che esista in Europa e che questa situazione è rimasta stabile negli ultimi cinque anni. Certo è indubbio che oggi si assista a delitti particolarmente efferati e che ciò susciti particolare clamore, anche in relazione alla straordinaria cassa di risonanza dei mass media, motivati da esigenze spesso principalmente commerciali.

D. Cosa ne pensa delle proposte di legge di diminuire l’imputabilità piena da diciotto a quattordici anni e quella ridotta da quattordici a dodici?

 

R. Sono le proposte dei cosiddetti benpensanti, spaventati dalla risonanza di cui parlavo prima. Fino a quattordici anni si ha una piena irresponsabilità dei minori e al di sopra di quell’età, dai quattordici ai diciotto anni, vi è una piena imputabilità ma con una diminuzione della pena fino ad un terzo. Con il bilanciamento delle aggravanti, delle attenuanti e della diminuente della minore età si può sempre valutare la pena in maniera adeguata alla situazione, disponendo anche pene severe, se ne ricorrono i presupposti , dal momento che le previsioni normative lo consentono.

D. E’ vero che aumentano i reati commessi dagli infra-quattordicenni ?

 

R. Statisticamente non è dimostrato. In città come Roma il dato percentuale più elevato riguarda i reati commessi da persone non italiane, reati sempre degli stessi tipi: furti commessi dagli zingari e vendita di stupefacenti da parte dei nordafricani. Si cominciano a manifestare fenomeni di bullismo, che sono evidentemente dipendenti da un ambiente familiare e sociale inadeguato.

D. Un dato significativo è l’aumento dei reati collettivi. L’adolescente è spesso affiancato da un “complice”: un amico, il ragazzo/a, o, più frequentemente, agisce all’interno di un gruppo o di una “banda” legati da dinamiche specifiche. Mi pare che questo segnali lo stretto vincolo fra la mente del singolo e quella del gruppo e renda particolarmente complicato l’accertamento della responsabilità civile o penale che è sempre individuale. Come si muove il giudice in questi casi?

 

R. I reati di gruppo ci sono sempre stati. L’adolescente si unisce in bande quando ha bisogno di trovare conferme che non ha né nella famiglia né nell’ambiente sociale più esteso. Se i giovani fossero in società primitive probabilmente si sottoporrebbero a riti di iniziazione; in questa società a volte il comportamento antisociale può costituire l’equivalente di un rito iniziatico. Se l’adolescente avesse delle alternative nella famiglia o nel gruppo sociale non avrebbe bisogno di cercare conferme, considerazione, collocazione e anche affetto nella banda. Pensiamo alla paura che ha un adolescente quando commette un reato: paura di essere scoperto e di non essere adeguato, di perdere la faccia di fronte alla banda e al capo della banda, che può essere anche un adulto. Non ci dimentichiamo mai che imputabilità significa capacità di intendere e di volere, che vuol dire capacità di intendere il significato delle proprie azioni ma anche di volerle autonomamente. E’ opinabile che chi partecipa ad una banda abbia delle minori capacità di volere autonomamente l’atto compiuto perché in quel momento esso è in qualche modo emanazione di qualcun altro, di qualche cos’altro, forse emanazione di questo spirito impersonale ed anonimo della banda che proprio per questo anonimato permette una confusione fra ruoli, azioni e desideri. Mi viene sempre in mente quella definizione del popolo tedesco che lo rappresenta tanto sublime in ogni singolo individuo e così spregevole se preso tutto assieme. L’adolescente a volte è anche un po’ questo e bisogna tenerne conto.

D. Si dice che l’adolescenza possiede una sua specifica carica provocatrice e che rappresenta la fase della vita che più di ogni altra produce intensi processi identificatori fra il soggetto e i suoi oggetti. Sarebbe proprio questa caratteristica che attiva tanto l’interlocutore. E’ così anche per il giudice dei minori?

 

R. Sì. Alcuni giudici possono non trovarsi bene a svolgere questo lavoro perché può smuovere conflitti irrisolti del soggetto che indaga. Soprattutto nei rapporti con gli adolescenti, ma anche con i bambini e con le loro famiglie. Allo stesso modo ci sono aspettative riversate sul giudice per le quali egli può essere vissuto in senso miracolistico, come quel soggetto imparziale che risolve il conflitto che coniugi o conviventi non riescono a risolvere. Però il più delle volte prevale una difesa della propria riservatezza ed esiste una grande paura che qualcuno metta il naso nelle vicende familiari. Il giudice, dal punto di vista soggettivo, può essere vissuto come una figura da cui guardarsi perché è un po’ una schematizzazione del Super-Io. In effetti, fra le istituzioni, quella che giudica ha connotati fortemente superegoici. Così la relazione con il giudice può dipendere dal rapporto che ogni persona e ogni famiglia ha costruito con il Super- Io. Il mondo familiare è un mondo chiuso per definizione, in cui nessuno deve mettere bocca. I luoghi comuni su questa privatezza sono nei proverbi e nelle massime incise sulle mattonelle vendute nelle Fiere di paese. “I panni sporchi si lavano in famiglia” si dice, oppure “Dentro la mia casa io sono il re”, ed anche il detto poco ospitale sulla somiglianza fra ospiti e pesci finisce per inserirsi in questa difesa strenua di un ambito nel quale si può entrare se invitati (l’ospite), ma solo per breve periodo, e dove si è soggetti all’autorità assoluta del capofamiglia (il re). In tale ordine di idee è difficile accettare che ci sia un organismo statale della forza e del peso di un Tribunale che interviene ed interferisce con le decisioni e le vicende familiari. Anche nei giudici è talvolta presente il burn out che così gravemente colpisce i lavoratori delle helping professions tutte le volte che non riescono a superare l’inevitabile accumulo di frustrazioni conseguente alle difficoltà ed agli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro..
Il giudice che vuole svolgere bene il proprio lavoro ha bisogno di guardarsi dentro, acquisire quegli elementi che gli permettano di dialogare con le persone con cui viene a contatto e risolvere quei conflitti che possono inficiare il proprio giudizio, impedendo di vedere la realtà così come è.

Titolo originale: Il rapporto fra la Giustizia e i Minori. Roberto Ianniello. Intervista di Emilio Masina, tratta da http://www.psychomedia.it/aep/2002/numero-2/masina.htm