La
violenza è un nesso, non una caratteristica di un soggetto…
Le femministe non vogliono ammettere che
nella maggior parte dei casi, forse nel 95% dei casi, la violenza è frutto di
un corto-circuito relazionale fra due individui legati a una relazione malata,
e non di un “colpevole”. Parliamo ovviamente di violenza di coppia, di casi di
media o lunga durata (e non della violenza da strada), casi nei quali gli
equilibri sono malati, e malati perché assestati su una ricorsività del
conflitto come chiave di volta della relazione.
Storie in cui mariti picchiano e menano anche troppo
ne conosciamo tutti: ma non è come è fin troppo facile scotomizzare, cioè lui
“cattivissimo”, lei “santa”.
C’è sempre una patologia / assurdità di entrambi che
lega entrambi a entrambi: detto in termini scientifici, la violenza è un nesso
di relazione. Un circuito (meglio: un corto circuito), cioè, che non è
possibile segmentare in percorsi lineari (“A” picchia “B” perché “A” è
“violento”: tipico esempio di lettura unilineare che crea effetti paradossali,
in quanto non in grado di impedire il fenomeno, ma anzi di esasperarlo).
La violenza è un nesso, non una caratteristica di “un”
soggetto…
Questa è una acquisizione della psichiatria ormai
ultracinquantennale, e negarla significa ritornare alla dimensione manicomiale
e, peggio, lombrosiana tipica di cento e più anni fa.
—
Le considerazioni su esposte potrebbero scaturire da
una semplice domanda. Infatti….
Avete presente un’esplosione?
Un’esplosione di un bidone di benzina in cui qualcuno
ha messo un cerino acceso.
L’esplosione è dovuta:
1) Ai vapori della benzina?
2) Alla fiamma del cerino?
La risposta è in un’altra domanda: ma se mettiamo il
cerino acceso in un bidone d’acqua, cosa accade?
Il punto è allora non nelle caratteristiche “in sé”
degli oggetti, ma nella relazione che gli “oggetti” assumono fra loro.
Essendo l’esempio banalmente esemplificativo, mira
ovviamente a illustrare solo un livello del problema: quello, appunto, secondo
il quale è la relazione che le “cose” assumono fra loro, e non le
caratteristiche delle cose “in sé”, a generare i “comportamenti” che poi il
nostro cervello attribuisce alle “cose” (o alle persone).
Le “caratteristiche” di ogni “cosa” si esprimono a seconda
della interazione con un determinato ambiente: se si mette un violino in
acqua non suona: marcisce.
E’ altrettanto evidente, però, almeno nella mia
opinione (ma non solo mia, ma di tutta una vastissima schiera di autori), che
la stessa lettura può esser trasferita su una coppia di esseri umani: sai
benissimo che qualità come “leadership”, “passività”, “aggressività”,
“timidezza”, non possono esser considerate solo caratteristiche del singolo, ma
tendenze che poi si esprimono come nesso di una sua relazione con l’ambiente e
con l’altro
(Vedi per tutti. “Pragmatica della comunicazione
umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi”, Watzlawick Paul;Beavin J.
H.;Jackson D. D., Astrolabio Ubaldini, Roma 1971; e: Watzlawick P. et al., La
Prospettiva Relazionale, Astrolabio, Roma, 1978).
In altri termini, stiamo parlando di acquisizioni
ormai scontate in psichiatria, che di colpo, con queste prospettive, vengono
negate.
Metti un uomo “violento” con una “masochista” e avrai
un effetto; metti un “violento” con una donna poliziotto e ne avrai un altro.
Attenzione; non sto sostenendo che tutte le donne
devono diventare “poliziotti” in caso di violenza: dico che l’intreccio che
lega il preteso persecutore alla pretesa vittima, è un legame che affonda le
sue radici in dimensione personale della “vittima” e del “persecutore”,
modificando una dei quali si può modificare il problema : “quella che
chiamiamo “la vita psichica, mentale o spirituale, ha luogo nello spazio di
relazione dell’organismo” (Maturana H., La objetividad – un argumento para obligar, Tercer Mundo Editores, Bogota, 1997 ) e “inoltre, dal momento che il linguaggio
come dominio di coordinazioni comportamentali consensuali è un fenomeno
sociale, anche l’autocoscienza è un fenomeno sociale che non avviene entro i
confini anatomici della corporeità dei sistemi viventi che la generano. Al
contrario è esterno ad essi e riguarda il loro dominio di interazioni come una
maniera di coesistere” (Maturana H.,
Autocoscienza e Realtà, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993 ). Ovviamente
non c’è solo Maturana a dire cose del genere, perché
dovrei partire da Watzlawick per arrivare – con dei
distinguo – fino a Laing e ad altri autori. Tutti
dimenticati dalla sinistra che prima ne aveva comunque fatto una bandiera per
dimostrare che la follia e la criminalità del singolo sono l’espressione di
disfunzioni del sistema e non del “suo” esser “matto” o “criminale”.
Il problema della criminalizzazione genetica del
maschio violento perché maschio, genera in realtà la donna come “vittima”,
perché le impedisce, in questa lettura, l’autonomia decisionale che le serve
per sottrarsi al “violento”.
Ad esempio, l’ultimo articolo uscito sullo stalking (vedi la Newsletter dell’Associazione Italiana di
Psicologia Giuridica, sotto linkata), evidenzia come nella coppia stalker-vittima siano in atto giochi relazionali psicotici
o nevrotici che dir si voglia: e tieni conto che gran parte degli studi
provengono proprio da soggetti ospiti di centri contro la violenza.
D’altra parte, sostenere il contrario significa
riportare la psichiatria alla criminologia di Lombroso, negando tutta la
corrente psicoanalitica e psicologica come base ma, soprattuttto,
tutta la psichiatria sistemica.
Questo excursus della ideologia di sinistra è
assolutamente paradossale: partita dalla tutela del disagio mentale come
espressione non della “follia” di un “singolo” – ma come l’emergere in un
soggetto di disfunzioni sistemiche e metasistemiche,
è finita per diventare moralistica e lombrosiana, negando
che il disagio esprime una crisi del sistema (sociale, familiare, e quel che
vuoi) e riaffermando i criteri descrittivi tipici del nazismo: la violenza
nasce come caratteristica biologica del maschile, e dunque il maschio è il solo
responsabile della violenza e va punito come criminale costituzionale.
Una follia da eugenetica della razza, nella quale in
un colpo solo si cancellano il concetto della patologia (che non è
legittimazione o scusa, ma spiegazione e ricerca di strumenti di tutela delle
vittime) come momento di disagio di un sistema e si riafferma il vecchio vizio
di internare e maltrattare la devianza scomoda, invece di recuperare un
individuo.
Si ignora poi, appunto, che quello che il nostro
cervello legge come “comportamento” di “un” soggetto, è invece l’espressione di
una sua relazione con l’ambiente.
Siamo tornati a Lombroso e cancellato cento anni di
psicologia e cinquanta di psichiatria sistemica: Pragmatica della Comunicazione
Umana, ma anche i testi di Minuchin, sono di
cinquanta anni fa (primi anni sessanta), quelli della Selvini
Palazzoli hanno più di trenta anni (da “Paradosso a Controparadosso” passando per “I giochi Psicotici in
famiglia””) ma sono stati distrutti dopo esser stati tipica espressione di una
sinistra che rifiutava il concetto dell’equazione “disagio del singolo =
individuo folle”.
Il discorso secondo cui il maschio è violento perché
maschio diventa dunque qui il portato di una nuova epistemologia che ha le sue
radici nella logica nazista: basta vedere i commenti forcaioli che compaiono in
altri siti quando si pubblica una qualche notizia di violenza.
Incitamenti alle più truci violenze partono da tutti
gli utenti e nessuno si accorge che – allora – la violenza serve a legittimare
la propria violenza.
LINK
VERSO LA NEWSLETTER DELL’AIPG (vedi n. 41, a
tutt’oggi l’ultimo uscito)
LINK VERSO L’ARTICOLO SULLO STALKING