Luci su Cannes: la gioventu’ bruciata delle registe al festival
All’annuale edizione del Festival du Cinema di Cannes va in scena il disagio giovanile di una società (La nostra!) in cui alineazione genitoriale e guerre familiari hanno prodotto ai giovani problemi di ogni sorta. Sono i figli del divorzio femminista che fanno i conti con frequentissime perdite di identità di genere, abusi e falsi abusi. Mobbing Genitoriale e Pas. I disastri familiari del femminismo in 35 mm.
Storie di adolescenti deviati per Julia Leigh e Lynne Ramsay. E oggi tocca al film choc “Polisse”, con scene di violenza e pedofilia
Colpa degli adulti, della solitudine, dei dolori imposti dalla vita. Colpa di un grande vuoto, dove manca tutto, la fede, l’ideologia, i buoni esempi. L’universo giovanile, osservato attraverso i tre film presentati ieri al Festival, mette i brividi. Tratto dal romanzo di Lionel Shriver, firmato dalla scrittrice australiana Julia Leigh, per la prima volta dietro la macchina da presa, Sleeping beauty racconta la storia di una ragazza che accetta di vendere il proprio corpo in una condizione di totale passività. Al centro di We need to talk about Kevin, regista Lynne Ramsay, protagonista nonchè produttrice Tilda Swinton, la cronaca dell’amore mai nato tra una madre e suo figlio. In Restless, di Gus Van Sant, la dolce attrazione tra un adolescente traumatizzato e una coetanea malata terminale di cancro. Il futuro ha ben poco da promettere, e questi sono i risultati: «Non so bene perchè continuo a fare film su ragazzi – dice Van Sant -. Di sicuro c’è che quel periodo della vita continua ad affascinarmi, forse perchè contiene tutte le promesse per l’avvenire». Promesse che spesso si spengono sul nascere, si infilano nei tunnel sbagliati, si arenano nelle sabbie mobili dell’adolescenza.
Seguendo i ricordi, le ossessioni e gli incubi ricorrenti di Eva (Swinton), una donna colta ed elegante che ha messo tra parentesi le sue passioni per dedicarsi alla famiglia, si finisce davanti all’orrore di un massacro che fa pensare, da una parte, alle stragi universitarie americane tipo Columbine, dall’altra alla tragedia di Novi Ligure. Fin da quando era minuscolo e strillava senza fine, Kevin ha messo in crisi le certezze di Eva, la sua intelligenza, il legame con il marito Franklin (John C.Reilly). Una linea sottile di perenne odio/amore lega i due personaggi, Kevin ferisce la madre, programmaticamente, come se dovesse sempre farle pagare qualcosa. Su di lei sfoga un’infelicità oscura, profonda, mentre al padre riserva abbracci e sorrisi. Crescendo, le cose non migliorano, anche perchè la famiglia si è allargata, e, ad alleviare il tormento di Eva, è arrivata una seconda bambina, bionda, buona, affettuosa. Per Kevin è troppo, quand’era piccolo il padre gli ha insegnato a tirare con l’arco, lui ha imparato molto bene. Sui corpi dei compagni di scuola, su quelli del padre e della sorellina, ci saranno quelle frecce, tante, lanciate con la violenza di una sconfinata infelicità. In carcere, ormai maggiorenne, Kevin riesce ad abbracciare sua madre: «Nel romanzo – dice Swinton – l’autore concentrava l’attenzione soprattutto sui rischi esplosivi della perdita di contatto tra genitori e figli». Il film, inquieto e disturbante, pieno di immagini che parlano di disagio interiore partendo dalla fisicità dei corpi, viaggia sicuro sui primi piani della protagonista. Se non fossimo al primo giorno di rassegna, si potrebbe già metterla nella rosa dei candidati al premio.
Prodotto dall’applaudita Jane Campion, che al Festival preferisce mimetizzarsi tra i giornalisti, occhialoni e lunghi capelli bianchi, Sleeping beauty ruota intorno alla virginale silohuette della protagonista Lucy (Emily Browning). Una ragazza sola, che tira coca nei locali notturni e si prostituisce per soldi. Un giorno la posta si fa più alta, arruolata nella casa d’appuntamenti di una tenutaria algida e bionda, Lucy prende una droga che la lascia addormentata per ore, alla mercè di uomini anziani e danarosi, pronti ad accettare l’unica condizione imposta dalla maitresse, niente penetrazione. Tra gli italiani in sala, qualcuno pensa al «bunga bunga», appartamenti sontuosi, prede giovanissime, clienti ricchi e compassati. Ma l’attualità non c’entra. «La mia speranza – dice la regista – è che il film spinga il pubblico a usare l’immaginazione». Un po’ favola erotica, un po’ pamphlet surreale sul rapporto tra vecchiaia e giovinezza, Sleeeping beauty ricorda Bunuel, cita il celebre dipinto di Artemisia Gentileschi Susanna e i vecchioni (a sua volta ispirato a un episodio dell’Antico Testamento), rivendica legami con la letteratura sudamericana: «Quella di Lucy non è una semplice scelta di sottomissione, piuttosto riflette un preciso modo di vivere». Vendersi tenendo l’anima ben divisa dal corpo, ma la scommessa è irrealizzabile, e il grido finale della ragazza, appena sveglia accanto al cadavere di un anziano cliente, fa pensare che forse Lucy inizierà un cammino di consapevolezza.
Anche Restless si chiude con il primo piano di un adolescente, la faccia perbene del figlio di Dennis Hopper, Henry, e con una speranza per la vita che verrà. Al Festival c’è chi dice, deluso, che Gus van Sant ha girato una nuova Love story pensando al cult Harold e Maude. Ma l’unione breve tra la giovanissima colpita da tumore e il ragazzo che, dopo aver perso i genitori in un incidente, ha preso l’abitudine di parlare con il fantasma di un pilota kamikaze giapponese, è raccontata con grazia, e fa versare lacrime oneste. Per quanto complicata, la giovinezza è un diritto che non va sprecato.
[Fonte lastampa.it]