Il figlio, l’altra mattina, voleva che il padre gli mollasse — tutta sana — la pensione. Appena ritirata dalla Posta.
Ha 25 anni. E nessuna voglia di lavorare seriamente. I soldi gli servivano per comprarsi la droga.
Cesare s’era stufato di quel supplizio. Che durava da anni. E aveva deciso di metterci un bel punto.
Il figlio lo ha preso per il collo e lo ha picchiato. Anche con un bottiglione pieno di coca-cola. Lui ha tentato di reagire. Ma il match era truccato. A quell’età, ormai, le forze gli erano calate. Fosse successo un tre anni prima, lo avrebbe gonfiato come un dirigibile.
Allora, senza una lagrima, col viso apparentemente calmo, gli ha dato tutti i quattrini: «Tieni. Arrangiati da solo. Ma questi sono proprio gli ultimi che ti do. Ci puoi giurare».
Il figlio è uscito via di corsa. Coi soldi in mano. Rimandandolo a quel paese. E sbattendo, dietro di sé, forte, la porta. Ha fatto tintinnare tutti i vetri del palazzo.
Poi ha chiamato l’ascensore. È entrato dentro. Ha schiacciato il bottone del pianterreno. S’è ritrovato nell’androne. È uscito fuori. Quand’è sbucato dal portone ed ha voltato a destra, ha inciampato addosso al padre. Che, da mezzo minuto, lo aspettava sul marciapiede.
Si era buttato dal quinto piano. Senza un urlo. Senza strillare o fare storie. Come se fosse una cosa di tutti i giorni.
Adesso stava spiaccicato lì per terra. Con tutte le ossa rotte. Con nessun pezzo, che stesse nel suo posto. Come nei quadri astratti. O un burattino, a cui hanno reciso i fili. I capelli bianchi erano intrisi di sangue e brecciolino.
Non era ancora morto. Ma non emetteva il minimo lamento. In questi casi — dicono — quando il dolore è veramente troppo, i centri nervosi saltano. Come i fusibili dei computer. E non si sente niente. Oppure era il suo stile, che prevaleva ancora.
Il figlio vide l’occhio del padre. Che lo guardava fisso. Come fanno anche le bestie, quando le ammazzi. Vide, pure, che le labbra si movevano. Quasi a voler parlare. Allora si gettò per terra, a fianco di lui, divincolandosi con forza dai primi accoritori. Che cercavano di condurlo via, per risparmiargli la veduta.
Le due bocche si ritrovarono vicine. Quasi a contatto. Quasi a respirare, l’uno, l’alito dell’altro. Tutti e due, ora, nel sangue che zampillava d’ogni dove.
A Cesare riuscì di bisbigliare: «Hai visto? Sono arrivato prima io. Un’altra volta», ricordandogli le corse che avevan fatto, per quelle scale, padre e bambino.
«Papà, papà!» gli bisbigliò a sua volta il figlio. «Ma mi vuoi ancora bene?»
“Certo… Ma sei sempre un disgraziato»
«Ma papà!» urlò straziato. «Perdono, perdono! Io ti voglio tanto bene.»
«E menomale…» concluse Cesare, prima di andarsene.
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